DOCkS della Bloody Roses Secret Society

PORCACCIA, UN VAMPIRO!, «Che vuole dal mio frigo?»

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mandar
view post Posted on 13/6/2010, 16:53 by: mandar




Ringrazio in anticipo chi leggerà questa storia e ancor più chi mi dirà cosa ne pensa. Senza pietà, ovviamente.
Lacio drom.

UNO


Le minacce sono inutili. Ti racconterò tutto, se ci tieni, ma forse dopo non ne sarai molto contento. Ad ogni modo, ricorda che la scelta è tua.
Mi stai guardando, in attesa, e non vuoi che percepisca la tua ansia. È una questione di potere, giusto? Ultimamente ho imparato qualcosina sull’argomento, già che ci siamo ti metterò a parte anche di questo.
Stai tranquillo, non offenderò la tua intelligenza sventolandoti la mia oggettività perché entrambi sappiamo che è una stronzata immane. Non proverò a mettermi sotto la luce migliore, questo sì, questo posso promettertelo. D’altronde, non me n'è mai fregato.
Ho qualche difficoltà a iniziare, sai? Il problema è che sono incapace di considerare gli avvenimenti come una serie ordinata e orizzontale causa-effetto-causa-effetto, dopo ciò ch’è successo, poi, ‘sta cosa del causa-effetto mi fa proprio schifo. Il tempo, visto dalla nostra prospettiva rasoterra, non è una retta, è una matassa ai cui nodi ci sono gli accadimenti importanti. Tutto per dire che non capisco se un fatto è la causa di qualcosa, se ne è la conseguenza oppure sta lì senza portare da nessuna parte. Una sega mentale, direbbe il mio amico Loris.
Fatta la premessa, sceglierò un momento X. Vediamo. Una domenica sera di metà novembre, alle otto con un freddo umido buono solo per muschi e licheni. Danilo aveva mollato me e i bagagli e se n’era andato, certo avrebbe anche potuto darmela una mano, ero carico come un cammello marocchino. I corsi erano iniziati da un paio di settimane, io avevo traslocato a metà ottobre ma quel pomeriggio, mistero della fede, si era materializzata un’altra tonnellata di roba e così, invece di snervarmi sul regionale delle venti e zerocinque, mi ero avvalso del passaggio graziosamente offerto.
Spinsi con la spalla il portone di ferro, tirai su i borsoni e mi preparai a tre piani senza ascensore. Odiavo venire a Bari di domenica. Questa città incasinata e sporca non mi dispiaceva dopo quattro anni, però la domenica riusciva ancora a schiacciarmi l’umore sotto i tacchi.
Al primo piano poggiai la roba e boccheggiai. Merda come stavo fuori forma. Dalla porta di destra non trapelavano rumori, forse le ragazze non c’erano. Eppure Carola stava preparando Costituzionale, strano fosse in giro. Non suonai perché desideravo solo una doccia, una bistecca e una dormita con cui smaltire la stanchezza per l’esame di Storia moderna. E poi l’indomani avevo lezione. Presi i borsoni e sbuffai su per la rampa. Tutte così, le case appioppate ai fuorisede, brutte, vecchie e pure costose.
Armeggiai con la chiave prima di centrare la toppa. Dentro era buio, con mio sommo scontento perché la mattina litighi per il bagno ma la sera vuoi compagnia. Irrimediabile l'incoerenza umana.
Mollai i bagagli chiudendo la porta col piede e accesi la luce sul corridoio. Mi affacciai alla mia camera per lanciare il giaccone sul letto, superai la cucina sbirciando nella stanza di Loris e Domenico e poi in quella di Fabio. Entrai in bagno, chicazzo aveva lasciato aperta la finestra, feci pipì e mentre mi lavavo le mani considerai la mia faccia ventiquattrenne sbattuta come un tappeto. Ma no, riflettei, il mio status era assimilabile a quello di un criceto che si dimena sulla ruota. Unica, anoressica consolazione, io della gabbia e della ruota mi rendevo conto. Che poi questa consapevolezza fosse una sfiga più che una forza, non ne avevo mai dubitato.
Va bene rotelline mie, pensai legandomi con un elastico la massa disorganizzata di ricci per cui m'avevano soprannominato Cespuglio, basta macinare puttanate, e tornai verso la cucina pregustandomi un abbondante mezzo pacco di tarallini alla pizza. Eppoi i criceti. Loredana ne aveva avuti due. Carini a guardarli ma coprofagi e cannibali, se lo spazio è poco e l’alimentazione inadeguata, capaci di mangiarsi i loro stessi cuccioli. Allungai la mano ed accesi la luce, che illuminò i mobili di scarsa qualità, il frigo bianco e un ragazzo vestito di nero, che mi guardava. Urlai e scattai indietro.
«Ludovico» annaspai, aggrappato alla porta.
«Scusa» mi rispose un filo divertito.
Mi staccai dallo stipite. «Che porcocazzo fai qua?»
«Ti aspettavo.»
Mi arresi a cotanta evidenza. «Ti va qualcosa? Ho i tarallini e una birra fresca, sempre che i piranha non se la siano già scolata» aggiunsi aprendo il frigo. «E ti pareva» dissi richiudendolo.
«Niente, grazie. L’esame?»
«Andato. Quando sei tornato?» gli domandai precedendolo in camera. Mi venne in mente quanto fosse più facile avvertirne la presenza per l’odore che per il rumore dei passi. Un odore gradevole ma strano, tipo cannella, mascherato ogni tanto dalle sigarette. All’inizio avevo pensato fosse un profumo.
«La settimana scorsa.»
«E dove sei stato di bello?»
Scostai il giaccone e sedetti sul letto lasciandogli la sedia. La mia stanza era un buco quadrato nel quale il padrone di casa aveva ficcato un letto, non un letto vero, in effetti, ma una rete coi piedi metallici addossata al muro e ricoperta da un materasso sottile come un formaggino, un armadio più alto che largo, e in fondo, ma si fa per dire, una scrivania che dava sulla finestra vista traffico. Il mio tocco personale era stato un poster di Bakunin, un manifesto de I soliti sospetti ed un tavolino sbilenco accostato all’armadio, su cui avevo sistemato il lettore e una pila di CD.
«A Mosca» rispose restando in piedi.
«Buono il caviale?»
Sorrise.
«Perché ti chiedo certe cose?»
«Perché sei curioso.»
Innegabile. Conoscevo Ludovico da circa un anno ma ancora non ero assuefatto. Dico, al fatto che fosse un vampiro. Non in senso morale, proprio nell’accezione di non-morto o come cacchio si dice. All’inizio mi aveva terrorizzato, e dato l’approccio che aveva avuto vorrei vedere chi non se la sarebbe fatta addosso, poi mi ero calmato. Abituato no, o forse sì, mah. Di sicuro, restavo un ficcanaso masochista.
Per la mia incolumità non ero più preoccupato in modo particolare: Ludovico aveva stabilito la condizione e io intendevo rispettarla. Mi rendo conto che un rapporto di amicizia dovrebbe sorgere su basi più paritarie, ma rispetto alla prospettiva di essere depennato dalla lista dei viventi il compromesso non era intollerabile.
«Stai in albergo?» gli chiesi disinvolto.
«No, ho riaffittato l’appartamento dell’anno scorso, che per quanto un tugurio è adatto alle mie esigenze. E comunque non mi fermerò molto. Ti piace Sàndor Màrai?»
Aveva scovato nel caos che governava la mia scrivania un romanzo in edizione economica.
«Non l’ho ancora iniziato. Com’è?»
«Uomo simpatico ma scrittura noiosa» rispose riponendolo.
«L’hai conosciuto?»
«Non bene, abbiamo chiacchierato solo un paio di volte.»
«Noioso alla D’Annunzio?»
«Nessuno è noioso quanto D’Annunzio.» Si appoggiò al bordo. «Raccontami di te. Non ci vediamo da mesi.»
«La solita vita, casa, università e qualche giro. Ho memorizzato il tuo numero, dopo che mi hai chiamato. Spero non ti…dia fastidio.»
«E perché mai?» Congiunse le mani e le sollevò a sfiorarsi le labbra. «Andrea?»
«Che c’è?» mi irrigidii.
«Oltre a cantarti la ninna nanna, non so più che fare perché ti calmi.»
Aprii la bocca e la richiusi.
«Hai ragione» disse staccandosi dalla scrivania. «Non ti disturberò più.»
«Aspetta» lo fermai, alzandomi. «È che ho ripensato ai criceti.»
«Prego?»
«Una brutta storia, al confronto il Tito Andronico sembra Pollon.» Mi lasciai ricadere sul letto. «Hai accennato ad un lavoro nuovo.»
Stavolta girò la sedia e sedette.
«Devo valutare certi volumi. Sai, è per riguardo a te che non sono passato dalla porta, per non comprometterti col mio nuovo cliente, se mi sta facendo seguire. Certa gente è così sospettosa» si lamentò storcendo platealmente la bocca.
«Chi è stavolta?»
«Un boss della mafia albanese.»
«Fantastico. Vuoi entrare nell’edilizia? In qualità di pilastro, intendo.»
Si tirò indietro, strinse gli occhi e scoprì i denti bianchi e perfetti. «Ti stai preoccupando per me?»
«Lo sai che strappi le mazzate dalle mani?» gli domandai intrecciando le mani sulla pancia.
«Ne ho avuto sentore.» Si alzò, senza neanche provare a nascondere un sorrisetto sornione. «Ora ti lascio riposare.»
«Ludovico?»
«Dimmi.»
Si era fermato vicino alla porta.
«Se una di queste sere usciamo, ti chiamo?»
Il sorriso gli si raddolcì. «Sì. Sarebbe bello.»

Mi svegliai dopo otto paciose ore di sonno, liscio e fresco come le chiappe di un neonato. Colazione, barba, gli appunti nello zaino di cuoio e di corsa all’università. Magari non sembra, però ero bravo negli studi. A essere sinceri, non ho un curriculum immacolato perché al terzo anno di scuola superiore sono stato bocciato per aver appiccato il fuoco alla presidenza. Il fatto è che, quando la pressione supera la tacca rossa, mi blocco oppure scatto come una molla. L’incidente venne gestito come reazione alla fuga di mio padre, il preside mi diede penitenza e assoluzione e io tornai a scuola l’anno dopo. E da lì ci fu il mio exploit.
Trottai da viale Unità d'Italia a piazza Umberto fino alla mia meta. Lettere e Filosofia era al secondo piano dell’Ateneo, un mausoleo labirintico come un castello di Walpole, affacciato sulle strade ricche e griffate del centro di Bari. Tra parentesi, secondo piano con rampa doppia, quindi percepito dai polpacci come quarto. Il cubo ospitava anche altre prestigiose istituzioni culturali quali la Biblioteca Provinciale e il Museo Archeologico nonché le facoltà di Scienze dell’Educazione e di Architettura, tutte ammassate una sull’altra, sicché i docenti si disputavano i pochi spazi disponibili col coltello fra i denti e gli studenti si comportavano come quegli scimpanzé chiusi in gabbie sovraffollate, che alternano una rassegnazione abulica con improvvisi scoppi d’ira.
La geografia umana della Facoltà era piuttosto variegata. Signorine in tailleur, frikkettoni usciti pari pari dai Settanta, punk tintinnanti di borchie e piercing e minicommendatori incravattati; tutti lamentavano le dimensioni striminzite delle aule. A me, ormai, sarebbe parso innaturale non seguire le lezioni appollaiato sul davanzale.
In tutto questo il Magnifico Rettore, - che, sì, va chiamato in questo modo ma al posto suo m’incazzerei, - poteva dirsi esistente ma nell’accezione di una divinità precolombiana, mai comparsa ai devoti.
Il professore di Antropologia sociale era un rompicoglioni preparatissimo che a me piaceva molto, soprattutto quando falciava gli stereotipi. Come disse il Bardo? Esistono più cose sotto il cielo di quante ne annoveri la tua filosofia.
Un’ora dopo incontrai Stefano mentre usciva dal dipartimento di Italianistica. Alto e massiccio, mi venne incontro col saluto romano.
«Buondì camerata.»
«A soreta» risposi. C’eravamo conosciuti da matricole, in biblioteca. Lui mi inguacchiava gli appunti con orripilanti slogan mussoliniani e per segnalibro usava un fascio littorio fatto di stecchini. Una volta lo dimenticò e io glielo feci ritrovare bruciato, sotto un biglietto, LA RIVOLTA DEL PROLETARIATO.
«Quando hai finito con le cazzate mi riporti le fotocopie di sociologia?»
«Domani, giuro. Hai un secondo? Devo dirti una cosa» aggiunse indicando col mento alla sua destra, verso il bagno.
«Beh?» feci, seguendolo.
Lui salutò due ragazze che si dividevano una sigaretta davanti al finestrone in fondo all’antibagno, si fermò alla porta del secondo box e si accarezzò la testa rasata. «Mi sto rivedendo con Maria» disse a voce più bassa.
«Dai!» mi meravigliai, «sono contento.»
«Stiamo andando con calma, stavolta.»
«Bravi.»
«Soprattutto io. Dopo il casino che ho combinato non ho il diritto di metterle fretta.»
«Dove hai trovato tutta ‘sta saggezza?»
«Un tre×due all'Oviesse.»
«La smetti di saltellare? Vabbè l’amore ma sembri un tarantolato.»
«No, è che devo pisciare. Ti chiamo così parliamo come si deve» concluse spingendo la porta.
Mi immersi in ragionamenti profondi sugli effetti obnubilanti dei sentimenti, che avevano condotto Stefano a usare l’ultimo spasimante di Maria come straccio per pavimenti, e me ne andai nella biblioteca di Storia contemporanea.
Lo sguardo teutonicamente incazzato della bibliotecaria mi sbalzò giù dal mondo delle pure idee e compilai il modulo per la consultazione dei libri. Lo consegnai a frau Blücher insieme alla mia carta d’identità e in cambio ricevetti la monografia per l’esame col professor Caramia, la mia prossima gatta da pelare. Si trattava di un’analisi della mafia siciliana dall’Unità alle Stragi degli anni Novanta. Le diedi un’occhiata, non male, ma troppo cara, perciò scattava la manovra per portar fuori i sacri testi: lasciai sul tavolo zaino e giaccone, mi infilai il volume sotto la cintura dei jeans, allungai il maglione e uscii fischiettando davanti a Blücher. Scesi di corsa le scale dell’Ateneo, attraversai il cortile interno, superai l’ingresso secondario e raggiunsi una delle copisterie self service che gravitavano intorno all’Università. Per fortuna una macchina era libera. Mi misi a girare pagine che poggiavo sulla lastra di vetro schiacciando lo START con gli occhi alla porta, per non accecarmi e per scorgere in tempo l’irruzione di qualche ligio finanziere. Ero diventato rapido, altri due o tre prestiti e mi sarei fatto tutto il libro. Teoricamente, i diritti d’autore erano sacrosanti. Ma quando si scontravano con l’esiguità delle mie finanze, fatalmente uscivano sconfitti.
Fotocopiai due capitoli, pagai, tornai in Facoltà a restituire il libro e a prendere le mie cose e zompettai verso casa che sembravo la capretta di Heidi.
Trovai Loris e Domenico in cucina.
«Buongiorno» salutai.
«E che cazzo» ringhiò Loris sbattendo l’anta della dispensa.
«Molto bene, grazie per lo squisito e corale interessamento. E voi, tutto bene?»
«Cespuglio, Fabio si è di nuovo sbafato tutto» mi spiegò Domenico.
«Io quello lo strozzo» continuò Loris, lungo e schizzato, camminando avanti e indietro. Poi si fermò a guardarci negli occhi. «Stavolta gli annodo la lingua al balcone.»
«Bravo, colpirne uno per educarne cento.»
«Eppure io non l’ho mai visto razziare» obiettò Domenico.
«Perché fa Attila solo quando non c’è nessuno» gli chiarì lui.
«Ragazzi» rincarai, «vi siete accorti che ci hanno di nuovo fregato lo zerbino?»
La faida con la famiglia del secondo piano durava da un anno. Non ricordavo chi avesse iniziato coi dispetti cretini ma oramai la guerra da fredda s’era fatta rovente.
«E noi glielo rifreghiamo. Esproprio proletario» rispose serafico Domenico, pulendosi con la felpa le lenti degli occhialini alla Bismarck.
«Un’altra cosa» continuai la fiera delle buone novelle, spostando il peso da un piede all’altro, «centodieci euro per eccedenza acqua.»
«Mooh» gemette Domenico.
«Porca puttana!» Loris marciò verso camera sua. «Ma lavatevi meno. E che siete, tonni? Orche?» gridò da lì.
Guardai Domenico. «Sedadavo?»
«Uno grosso così» rispose poggiando di taglio, appena sotto la spalla, la mano sul braccio proteso.
Scoppiai a ridere. Vabbè, la mia gabbia da criceto non era malaccio, valutai. Certamente qualcuno avrebbe trovato asfissiante quella routine, ma non io. Io non sapevo che farmene dei picchi adrenalinici e una vita incolore mi andava benissimo. Era quello che ci voleva, tranquillo e piatto tran tran di mera sopravvivenza. Ma forse lo pensai così forte e chiaro da arrivare ai timpani di un qualche genio della lampada alla rovescia, abituato a presentarsi senza invito e per di più dotato di un senso dell'umorismo a dir poco malato.
 
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