DOCkS della Bloody Roses Secret Society

PORCACCIA, UN VAMPIRO!, «Che vuole dal mio frigo?»

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mandar
view post Posted on 13/6/2010, 20:17 by: mandar




DUE


Il giovedì successivo ero alla mia scrivania, accucciato sotto il caldo cono di luce azzurrata prodotto dalla lampada da tavolo. Avevo trascorso un'oretta riempiendo tre fogli di pensieri sconnessi e ora me ne stavo col mento sui pugni, indeciso se premere INVIA sul telefono. Il display diceva IO E GLI ALTRI ANDIAMO AL SAMSARA VERSO LE DIECI. TI ASPETTO. Il destinatario era indicato come Lud. Il display si spense.
Cercavo di decidere, e intanto pensavo che, con tutta onestà, non me l’ero cercato, il casino che mi era caduto addosso. Mi era successo, proprio come a quei tizi centrati in pieno da un fulmine nel mezzo dell’Oceano Pacifico. Era stato l’anno precedente, ai primi di novembre, di questo ero sicuro. In quelle settimane uscivo quasi ogni sera. Stavo bene, dopo un periodo buio nel quale si era ammalato di cancro alla prostata il nonno di Loredana, la ragazza con cui stavo da quattro anni. Lei gli era molto affezionata e soffriva e io avevo cercato di starle vicino e di rendermi utile, imparando anche a fare le iniezioni e a cambiare le flebo, ma il vecchietto era peggiorato rapidamente ed era morto dopo due mesi, e forse fu una fortuna perché il dolore era diventato tremendo. Epilogo: tre settimane dopo il funerale, Loredana mi aveva lasciato. Per un altro. Perché la vita era breve e lei voleva prendersi il meglio. Ed io, per carità tanto una brava persona, potevo prenderlo in quel posto.
Una mazzata mica da ridere. All’inizio avevo pianto come un agnello la Domenica delle Palme, poi ero passato alla fase rabbia-rancore-odio e alla fine era sopraggiunta una morbida sensazione di sollievo e leggerezza, di cui intendevo godere a pieno.
Accadde proprio di giovedì, la serata che i fuorisede dedicano agli stravizi. Io e Loris avevamo cenato con Stefano e la sua ragazza, Maria, una strafiga al secondo anno dell’Isef. La valchiria aveva sfoderato un commovente rollè di tacchino al radicchio, mentre noi due avevamo rallegrato il collettivo con tre litri di Primitivo di Manduria così alcolico e pesante da lasciare l'alone viola sui bicchieri.
Verso mezzanotte c’eravamo trasferiti al Lion pub, un locale fumoso e affollato arredato con tavoli e panche di un bel legno scuro, in cui suonavano soprattutto reggae. Era arrivato anche Giovanni, amico di Loris dal liceo e omosessuale dichiarato.
Loris ci stava intrattenendo con le sue avventure erotiche ma eravamo ancora troppo sobri per credergli, così ordinammo una bottiglia di whisky e cinque cannucce. Fu allora che i due alternativi del tavolo accanto si alzarono lasciando il posto a questi tre tipi. Il primo a notarli fu Giovanni.
«Auau!» ululò, interrompendo Loris a metà copula con due bergamasche.
Ci girammo che ancora erano in piedi. Uno era lungo e secco, sulla ventina, con un giubbotto rosso. L’altro più robusto e vecchio, con un paio di baffetti e un cappotto cammello. Il terzo, quello che doveva aver attirato Giovanni, era sui venticinque, vestito di nero, pallido, i capelli scuri che sfioravano le spalle. Era piuttosto esile e neanche molto alto ma a causa dei lineamenti e del portamento pensavi per forza che con gli altri due non c’entrasse una cippa.
La nostra manovra non piacque al Baffetto, che ci guardò storto. Noi ci voltammo a sghignazzare come dementi mentre la cameriera serviva il Jack Daniel’s e le cannucce con aria orripilata.
«Hei Giò, ti sei innamorato?» chiese Loris, che l’alcol rende amabile come un tafano, e Giovanni, rosso in faccia, gli diede di gomito. «Trapano del Tavoliere, ma l’hai visto bene?»
«Meno confidenza» si scansò lui, «ché la gente maligna.»
«Credevo ti piacessero i maschioni abbronzati e palestrati» lo stuzzicò Maria.
«Davanti a un musetto simile i miei orizzonti si aprono. Si spalancano» corresse agitando le sopracciglia su e giù.
«Abbiamo colto, non serve che ti sforzi» commentò Stefano, mentre ciucciava il whisky come tè freddo.
Maria si accese una sigaretta e squadrò il tipo in nero con piglio da entomologa. «Mah, è carino ma ha l’aria patita. Secondo me ti si affloscia dopo cinque minuti.»
Per risposta Giovanni si girò a rivolgergli una lunga e concupiscente occhiata spermatica. «Lo rianimo io, lo rianimo. Con una bella respirazione bocca a bocca e un bel pompino.»
«Basta, adesso vomito» frignò Stefano semisdraiato sul tavolo.
I tre non facevano caso a noi. Discutevano seri bevendo della roba trasparente, credo vodka. La musica era alta ma riuscimmo a captare alcune frasi. Che non erano in italiano. A orecchio, una lingua slava.
«Pure esotico» riattaccò Giovanni. Tra una sorsata e l’altra gli obiettai alcuni inevitabili problemi di comunicazione e lui rispose che sarebbe ricorso al Linguaggio Internazionale dell’Amore, poi diede una rumorosa succhiata alla sua cannuccia e gridò all’oggetto delle sue brame con la voce più da checca di cui era capace «Uccello del paradiso! Chi ti manda, la divina provvidenza?»
Io saltai sulla panca, Stefano fu lì per accecarsi con la cannuccia e Baffetto e Spilungone si voltarono a guardarci tanto ma tanto male.
«Questi ora ci gonfiano» tossicchiai.
Abbassammo mogi le teste e dopo un breve silenzio contrito attaccammo a ridere peggio di prima. Baffetto e Spilungone tornarono ad occuparsi del tizio. Con la coda dell’occhio vidi che erano contrariati con lui, più propriamente incazzati come mufloni. Quello invece era calmo. Disse qualcosa, poggiò dei soldi sul tavolo, si alzò e se ne andò. Dopodiché i due finirono di vuotare i loro bicchieri, scambiarono alcune frasi e si allontanarono. Noi, per quanto ciucchi a tre quarti, demmo retta all’istinto di conservazione ed evitammo di fare ancora gli spiritosi.
Poi infierii su Giovanni. «Ti ha spezzato il cuore, eh?»
«Ragazzo crudele» sospirò lui.
«Meglio così» commentai.
«Ma vaffanculo» scattò.
«È solo una questione di tempo» partii, la lingua già avviluppata in uno strato di moquette al malto, «prima o poi tutte le storie annegano in un mare di lacrime e merda. Così hai risparmiato energie.»
Loris mi guardò dall’alto in basso. «Bella filosofia del cazzo. Siccome una cosa deve finire. è meglio che non inizi neanche.»
«Non sei d’accordo, arguisco.»
«È una puttanata. Per restare nei tuoi argomenti profumati, io ho davanti una bella coppazza di gelato tempestata di noccioline e cioccolato fuso e dico, no, meglio non mangiarla, altrimenti mi viene la colica. Sai invece che faccio io? Me la sbafo con la massima libidine e se poi devo passarmi un’ora a piangere sul cesso, pazienza. Tanto di questo non si muore.»
«Di diarrea o d’amore?» chiese Stefano, che forse aveva perso il filo.
«Tutt’e due» tagliò corto Loris.
Seguirono le dissertazioni sui due massimi sistemi testé espressi nonché la suzione di quasi tutto il nettare di zio Jack.
Due ore dopo io e Loris eravamo a casa. Crollai sul letto tutto vestito e dormii duro finché lui non accese la luce.
«Che cazzo vuoi?» gli chiesi. Fuori era ancora buio.
«Scusami ma sto veramente male» biascicò. Era avvolto in una coperta, bianco come un calzino, e tremava. «È la quinta volta che vomito. Mi sento morire.»
Imprecai tirandomi su. Neanch’io ero proprio in forma. «Che ti serve?» domandai toccandomi la testa. Madonna che male.
«Qualcosa. Non lo so. Ti prego, vai in farmacia.»
«Adesso?»
Minuscoli elefantini rosa shocking mi danzarono davanti agli occhi.
«Ti prego. Quella in via Crispi è sempre aperta. Chiedi al farmacista. Ti prego.» Un conato e corse in bagno.
«Puttanaeva» sospirai alzandomi. Trovai le scarpe. Le infilai. Mi trascinai fino al bagno, dove Loris, in ginocchio con la testa nella tazza, produceva il rumore di un Kalashnicov caricato a pomodori marci. Mi accasciai sul lavandino e riuscii a lavarmi la faccia.
«Vuoi un dottore o un esorcista?» gli chiesi.
«Ggghaa…»
«Ho capito, torno subito.»
Lui agitò le braccia come una gallina col Parkinson.
Scesi le scale con grande cautela e uscii nella notte, la testa infilata nel giaccone per il freddo bestia. Era talmente irragionevole che forse stavo solo sognando di vagare alle quattro del mattino per prendere la medicina a quella scamorza del mio amico e coinquilino, incapace a reggere qualche litretto di vino rosso e un whiskino.
Percorsi alcuni isolati. In giro non c’era veramente un’anima. Oltrepassai Piazza Cavour e mi trovai al bivio: sottopassaggio buio o strada lunga e illuminata. Pensai che a quell’ora i rapinatori intelligenti erano al calduccio nei loro lettini e imboccai il sottopassaggio, che dopo una cinquantina di metri sfociava in via Crispi.
Camminai in fretta rasente il muro. Sentivo solo il rumore dei miei passi. Un po’ di strizza mi era venuta, al ritorno avrei preso la strada lunga, e mi misi a canticchiare «Gig va, cuore e acciaio...» A destra c’era l’uscita per via Fortunato, ci passai davanti e mi bloccai. Se fossi stato più lucido, a quella scena me la sarei filata, invece rimasi fermo come un cesso. Avevo ritrovato il terzetto di qualche ora prima, solo che la situazione era parecchio cambiata. Baffetto e Spilungone avevano in mano le pistole e tenevano sotto tiro il tipo in nero. Spilungone gli aveva appoggiato l’arma alla tempia mentre Baffetto lo affrontava di fronte. Da dove ero io, solo l’Uccello del paradiso mi vedeva, e io vedevo lui, e lui non aveva paura e io sentii una stretta allo stomaco.
Neanche ora posso giurare su ciò che successe perché lui si mosse con una velocità micidiale e io ero terrorizzato e ancora mezzo fatto. Prese il braccio di Spilungone e glielo torse indietro con un strappo. Spilungone guaì e la pistola cadde. Baffetto non poté sparare perché avrebbe colpito il suo compare, che il tipo gli spinse contro, prima di balzargli addosso. Bloccò Baffetto per le braccia e lo morse alla gola. Baffetto si dimenò per qualche secondo e si fermò. Lui lo lasciò cadere. Aveva rivoli rossi che gli colavano dalla bocca. Spilungone si era rialzato e barcollava verso l’uscita tenendosi il braccio ma il Nero lo riagguantò, lo trascinò indietro e gli spezzò il collo. Infine raccolse la pistola e sparò a Baffetto sulla ferita. Estrasse dalla tasca un fazzoletto bianco, pulì la pistola, la gettò e guardò me.
Io non mi ero mosso, non avevo fiatato, forse non avevo neanche respirato. Il tipo ora si stava avvicinando a me e io non sapevo muovere un muscolo.
Si avvicinò senza fretta, fissandomi. Sorrideva. Un sorriso gelido.
«Non è la tua notte fortunata» disse. Con una mano mi prese per il collo e mi inchiodò al muro. Una morsa che mi permetteva appena di respirare. Gli afferrai il polso ma la morsa peggiorò.
«Stai buono» sussurrò. Io obbedii ma le mie mani rimasero attaccate al suo polso.
«E ora che ne faccio di te?» domandò.
«Io…non ti ho…fatto niente…» strascicai.
«È vero» convenne, «però mi hai visto. Sono spiacente.»
La morsa si strinse ancora.
«Dio…ti prego…» implorai.
«Perdona l’indiscrezione» mi disse e con l’altra mano iniziò a frugarmi addosso. Trovò il portafogli e lo aprì.
«Vediamo. Andrea Magli, residente a Taranto in via Pirro 21. E qui cosa abbiamo? La tessera dell’Edisu. Uno studentello proprio sfortunato.»
Richiuse il portafogli e me lo rimise in tasca.
«Allora Andrea Magli» iniziò, «ho due possibilità, ti uccido o ti lascio andare. Tu che consigli?»
«Io…per favore…non…»
«Lo immaginavo» sorrise.
Non riuscivo a sentire le mie gambe.
«Allora stipuleremo un accordo, io e te. Ti lascio andare ma tu devi fare una piccola cosa per me, davvero una sciocchezza.» Diminuì leggermente la presa. «Devi tacere. Tutto qui. Tacere ciò che hai visto con tutti, per sempre. E io prometto di non toccarti. Accetti?»
«Sì…sì» annaspai.
«Devo avvisarti, però, che se non sarai di parola io ti farò male, più di quanto tu possa immaginare.» Strinse di nuovo la morsa. «Non solo a te. A chiunque tu lo dica, che ti abbia creduto oppure no mi è indifferente. Ma ci metterò un tempo lunghissimo e tu mi supplicherai di finirti.» Scoprì i denti e si accostò alla mia faccia. Potevo sentirne l’odore. «Siamo d’accordo, Andrea?»
«Sì» riuscii a dire.
«Splendido.» Mollò la presa e indietreggiò di un passo. «Ora tornatene a casa.»
Provai a muovermi ma le gambe non sembravano appartenermi.
«Coraggio» mi esortò quasi gentile, e arretrò ancora. «Vai.»
Strisciai la schiena contro il muro per un metro o due, poi gli diedi le spalle e mi allontanai. Non ero in grado di correre né di girarmi. Fuori del sottopassaggio udii sgommare due o tre volanti a sirene spiegate.
Arrivai a casa. Loris boccheggiava sdraiato sul letto.
«Che mi hai preso?» rantolò quando mi vide.
Io lo guardai senza trovare niente da rispondere. Non provavo paura. Non provavo stanchezza. Non provavo niente.
«Era chiuso?» domandò.
«Sì» feci meccanicamente.
«Cazzo.» Alzò un braccio. «Mi metti almeno una pezza fredda sulla testa? Mi sta per esplodere.»
Andai a prendere uno strofinaccio, lo bagnai e glielo posai sulla fronte. Poi tornai in cucina a prepararmi una camomilla bollente senza riuscire a scaldarmi. Credo mi fosse salita la febbre.
Il giorno dopo mi recai a lezione e non capii una parola. Nel corridoio incontrai Stefano, il quale mi sfotté per il colorito itterico della mia faccia. Io sorrisi.
Mentre tornavo a casa chiamai mia madre.
«Andrea?» rispose, «Hai una voce strana. Stai bene?»
«Sì sì. E lì, tutto a posto? Novità?» mi stava venendo da piangere.
«Sì…» Mia madre era perplessa. «Piccolo, che c’è?»
«Niente, veramente» mi sforzai. «Volevo sentirti. E Miki?»
«Oggi non l’ho mandato a scuola perché ha un brutto raffreddore.» Esitò. «Hai qualche problema? Vuoi tornare, così ne parliamo? Ti faccio le polpette.»
«Sul serio, tutto a posto. Ho solo un po’ di mal di gola. Ora devo andare in facoltà. È tardi. Ci sentiamo.»
Riattaccai prima che mi facesse altre domande.
A casa trovai Loris ancora in pigiama.
«Vuoi il caffè?» mi chiese.
«No grazie. Loris?»
«Lo so, sono un rompipalle. Scusami tanto» disse tagliando il lembo argentato del pacchetto nuovo. L’aroma intenso che ne uscì mi aggrovigliò lo stomaco in una fitta dolorosa.
«Non fa niente» risposi.
«Che c’hai?»
Aveva alzato la testa e mi fissava.
«Niente.»
«Non ti senti bene?»
«Una punta di mal di testa.»
Ridacchiò. «Non hai più l’età per certe cose, bello mio» e tornò a occuparsi del caffè.
«Devo dirti una cosa.»
Rialzò la testa, lasciò la moka e si avvicinò.
«Ieri» incominciai. «Per le cose di ieri non mi sento bene. Puoi lavarli tu, i piatti, oggi?»
«Certo» rispose. «Ma non chiedermelo con quella faccia da condannato a morte.»
«Scusa.»
Andai a sdraiarmi in camera mia. Mi rannicchiai sul fianco e pensai che il Nero poteva stare tranquillo, io ero bravissimo a tenere i segreti.
Ci misi un po’ a trovarlo ma alla fine saltò fuori. Il crocifisso che la mia bisnonna si era portata dietro da Napoli e che mamma mi aveva infilato in valigia il primo anno di università. Non l’avevo appeso perché il mio rapporto con la religione istituzionalizzata non è mai stato idilliaco, però ora presi chiodo e martello e lo piazzai sopra il letto. Puerile, lo so, ma non sapevo che altro fare.
Arrivò il pomeriggio e poi arrivò la sera. Domenico era a casa sua, Fabio con la ragazza e Loris a studiare Commerciale da Carola. Solo due piani sotto, mi dissi.
Verso le sette, imbrattato un foglio protocollo col mio bolo psichico, andai a farmi un giro. Mi guardavo attorno, erano persone, talvolta per bene e più spesso no, ma solo persone, perché di questo sono piene le strade e le città, di normalissime persone. Il mondo era già abbastanza marcio, inutile farcirlo coi mostri immaginati da un ragazzo sbronzo e terrorizzato.
Tornai a casa, accesi la TV e mi preparai della pastina coll’olio crudo e il formaggio grattugiato. Il TG regionale parlava dell’uccisione di due pregiudicati russi. Cambiai canale, mangiai, sistemai i piatti, lasciai perdere le dispense di Geografia e andai in bagno a lavarmi. Ero abbastanza a pezzi da sperare in un sonno profondo e senza sogni. Prima di uscire mi accorsi che la finestra, la quale dava sul piccolo cortile interno, era aperta. Chiusi il chiavistello e ciabattai verso camera mia con la camicia aperta tirata fuori dei pantaloni. Accesi la luce e mi avvicinai al lettore. Della buona musica, ecco quello di cui avevo bisogno. Qualcosa che mi tirasse su. Germi degli Afterhours, energico positivo e incazzato! Alzai il volume e mi misi a cantare «Forse se smetto di respirare se ne va via da seee…» Ondeggiai sulle ginocchia, ero un cretino, ma vivo e sgambettante. Piroettai verso la porta. L’Uccello del paradiso era là, nella stanza, gli occhi neri fissi su di me.
Alzai le mani a difesa e indietreggiai. Inciampai e caddi sul letto.
Quello si avvicinò. «Sono venuto a confermare i termini del nostro accordo» disse.
Si fermò ai piedi del letto. Io strisciai indietro finché non fui spalle al muro. Allungò una mano e prese il crocefisso. «Grazioso. Scuola napoletana del XIX Secolo, direi seconda metà.» Lo riappese e mi guardò. «Ho scoperto alcune cose interessanti. Hai una madre e un fratellino di nove anni. Tuo padre è andato via di casa otto anni fa.» Si chinò in avanti. «Il nome del bambino è Michele. Tu come lo chiami, forse Miki?»
Sentii che la mia carne si pietrificava. «Non osare avvicinarti a loro.»
«Dipende da te» rispose.
Non fui io ad alzarmi, fu la rabbia a tirarmi su. Ora eravamo faccia a faccia e partii con una testata che avrebbe dovuto metterlo fuori combattimento. Fulminea, nelle intenzioni. In realtà, lo vidi indietreggiare come al rallentatore. Come al rallentatore, vidi l’armadio venirmi incontro. Sbattei il naso, che scricchiolò in modo sinistro. Il dolore giunse con un lieve ritardo, feroce. Gli occhi mi si riempirono di lacrime accecanti e dalle narici iniziò a fuoriuscire qualcosa di caldo. Mi voltai poggiando la schiena all’anta, piegato su me stesso con le mani a coppa sul volto.
Non riuscivo a vederlo ma lo sentii. Lo stronzo cercava di non ridere.
«Stai fermo» singhiozzò, «o ti ucciderai prima che io abbia il tempo di alzare un dito.»
Lo udii uscire dalla stanza ed entrare in cucina. Aprì il frigo. Cazzo vuole dal mio frigo?, pensai. Assassinarmi a colpi di broccoli? Ammazzarmi a cotolettate?
Tornò davanti a me, adesso ci vedevo meglio ma ancora non respiravo per il dolore. E mi posò sulla faccia una confezione da 750 gr. di spinaci surgelati.
«Tienilo così. Calmo, non ti agitare. E non tremare.» Accostò le labbra al mio orecchio. «Io sono un uomo di parola. Finché terrai la bocca chiusa non ti farò alcun male.»
Si girò e uscì dalla stanza. Udii chiudere la porta, la busta mi cadde e scivolai a terra.
Lui non si fece vedere e io decisi che non era niente. Tutti possiamo incappare in uno squilibrato, no? E a me era andata di lusso, setto nasale a parte. Non era proprio il caso di farne una tragedia. Ma non lo raccontai a nessuno.
La quarta volta che l’incontrai, sarà stata una decina di giorni dopo, quando la melanzana che avevo al centro della faccia era già tornata naso, gli presentai i miei amici. Oddio, la cosa non fu proprio spontanea. Eravamo in giro a smaltire un’ennesima litigata con Fabio e Loris ci stava avvisando che la prossima volta a quella testa di cazzo gli avrebbe tirato un numero incalcolabile di schiaffi, e nel gesticolare colpì uno, facendogli volare di mano una lattina di Fanta. La lattina piroettò nell’aria e atterrò sul cofano di una Peugeot 206 grigia ferma al semaforo. Un bozzo grande quanto un pugno. Loris bestemmiò le Moire, perché tu sai cosa fanno i baresi a chi gli ammacca la macchina, vero? Appunto.
Loris si accostò all’auto, da cui filtrava Midlife crisis dei Faith No More. Una persona che ascolta i Faith No More non può essere cattiva, pensai. Lo sportello si aprì e ne uscì il Nero. Io stavo per inginocchiarmi e supplicare. Il Nero parlò con Loris ed accettò la sue scuse, tutto con la massima tranquillità. Disse che non occorreva alcun risarcimento, era proprio una cosa da nulla. Ricominciai a salivare e mi avvicinai con Domenico. Il Nero mi salutò e si presentò agli altri come Ludovico Spinola. Loris si scusò nuovamente e Ludovico andò via con una stretta di mano. Prima, però, mi chiese se avessi bisogno di un bicchiere d’acqua perché ero veramente pallido come un cadavere.
Loris e Domenico furono concordi che era un ragazzo gentilissimo.
Il quinto incontro fu ancora più istruttivo. Avvenne quattro settimane dopo, quando Domenico decise di trascinare fuori di casa Loris perché Commerciale gli stava friggendo il cervello. Lui fu recalcitrante, così dovemmo infilarlo vestito sotto la doccia. Gridò un pochino, poi si arrese.
Ci ritrovammo al Samsara con Maria, ora ex ragazza di Stefano, Carola e la sua amica Sonia. Il Samsara era una cantina che ignorava qualunque norma di sicurezza o decreto comunale sull’ordine pubblico, si animava dopo le dieci ed era una specie di circo Barnum, ci trovavi di tutto e ognuno faceva quel che gli pareva.
Si sedettero con noi anche Ottavio e Mauro, due studenti di ingegneria elettronica amici di Domenico, e le chiacchiere si evolsero in una questione di spessore. Dal momento che il docente di Commerciale, il chiarissimo professor De Pace detto Sterminetor, aveva subito due infarti, l’inserimento di un numero imprecisato di bypass - la leggenda narrava sette - un pacemaker, una gambizzazione e le peggio maledizioni... uscendone vivo e sempre più spietato, Carola e Loris stavano chiedendo se fosse possibile bloccargli il pacemaker da lontano, tipo con un telecomando. I due scienziati convennero che sì, teoricamente era fattibile, con l’ausilio di certe vattelappesca onde elettromagnetiche in opposizione di fase.
Domenico raccolse dalle mie dita la canna che avevo rollato amorevolmente, diede un lungo tiro, espirò di gusto il fumo e propose un’alternativa più semplice, pagare una prostituta che lo scopasse a morte, ma Loris obiettò che De Pace non era veramente un essere umano, era il Demone del Dolore bramoso delle anime degli studenti, quindi non concepiva desideri carnali.
Mi alzai per prendere una birra e lo trovai nella folla. Era appoggiato al bancone e parlava con uno che conoscevo di fama, figlio del più importante antiquario di Bari.
«Ciao» mi salutò.
«Ciao» risposi io. Conto fino a tre e corro, pensai. Invece i miei piedi rimasero saldati al pavimento.
«Anche lui lavora per te?» gli domandò il rampollo, indicandomi.
«No. Alessandro Amodio, ti presento Andrea Magli.»
Gli strinsi la mano meccanicamente. Scappa, cazzone, volevo dirgli.
«Alessandro» ripeté quello, senza guardarmi in faccia. Fece un gesto a qualcuno dietro di me e si rivolse di nuovo a Ludovico, che nel frattempo mi aveva lanciato uno sguardo da segarmi in due. «Dicevo, mi spieghi dov’è il problema?»
«È un falso» rispose lui, sulla faccia l’espressione più candida del mondo. «Ineccepibile, tranne che per un minuscolo errore materiale. L’edizione è del 1732, con dedica al duca Silverstein in ringraziamento della sua ospitalità. Ma il duca, all’epoca, ingrassava i vermi già da sette anni. Senza aver conosciuto le gioie della paternità.»
«Ah» fece Alessandro, con parecchia baldanza in meno. «Onestamente, questo particolare non l’avevo controllato. Ma in effetti, neanche tu. Non è possibile che ricordi pure un dettaglio così pidocchioso» riattaccò.
«Verifica» rispose l'altro.
«Sicuro?»
«Tanto che, se hai ragione tu, lo compro al triplo del prezzo. Se non ho sbagliato, mi offrirai una cena degna della tua cortesia» replicò Ludovico.
Io tentai di gridare ad Alessandro che dopo ‘sta battuta penosa faceva bene a infilargli una testa d’aglio tu sai dove e correre correre e ancora correre. Invece emisi il gorgoglio mogio di uno scarico intasato.
L’antiquario tracciò con la bocca una circonferenza completa, rotta da uno schiocco finale. «Vista la media delle cantonate che hai preso, mi sa che devo cospargermi il capo di cenere davanti a mio padre e prenotare. Carne o pesce?»
«Scegli tu.»
«Va bene, sarà l’occasione per riparlare di quell’altra faccenda.»
Ludovico sorrise. «Te lo ripeto, è la proposta ideale per chiunque desideri stabilirsi qui.»
«Ma tu non lo vuoi» terminò l’altro.
«Le vecchie abitudini sono dure a morire» si giustificò.
Alessandro fece una smorfia insoddisfatta. «Mi arrendo. Per ora.» Alzò l’indice verso una ragazza e annuì. «Ora vi lascio. A dopo.»
Lo seguii con gli occhi.
«Sembri aver ingoiato uno scorpione, vivo e di pessimo umore» osservò Ludovico, neutro.
«Che cosa vuoi?» scattai.
«Pensi sia qui per te?»
«No?» risposi un po’ disorientato. «Avevamo un accordo.»
Inarcò un sopracciglio. «Hai le idee confuse. Bionda o rossa?»
«Che?»
«La birra.»
«Bionda, grazie» risposi d’istinto. Cazzo stavo facendo, ci bevevo pure assieme?
Ordinò due medie, pagò e mi passò il bicchiere. «Credevo di essere stato chiaro. Finché non diventi pettegolo non hai ragione di temermi.» Bevve un sorso e mi sorrise. «E non farti venire una crisi isterica ogni volta che c’incontriamo.»
Mi tremò un po’ il bicchiere.
«Ascoltami» continuò poggiando la sua birra sul bancone, «sto concludendo degli affari in questa città, non ho intenzione di compiere una strage o di fare nessuna di quelle brutte cose che ti stanno passando per la testa.» Esitò. «A meno che non mi costringano.»
Il liquido nel mio bicchiere ondeggiò di nuovo.
«Tu fai…quelle cose che…uccidono» obiettai con una perifrasi carpiata.
«Se non ho alternative.»
«E quando ce l’hai, l’alternativa?» insistetti.
«Scelgo il sangue di un animale.»
«A sì? E i due di quella notte, cos’erano, armadilli?»
«Stai gridando» mi ammonì.
«Scusa.»
Prese a tamburellare le dita sul piano di legno. «Da qualche anno esporto in Russia libri antichi, perciò quei signori volevano approfittare dei miei canali d’accesso per le loro pilloline della felicità. Non hanno saputo accettare un rifiuto, acciocché puoi considerare quel che hai visto come legittima difesa, oppure l’opera di un orrido mostro sanguinario. Per me è lo stesso» terminò raddrizzandosi.
«Non mi presenti il tuo amico?»
Mi girai. Maria gli stava già porgendo la mano.
«Ludovico» rispose, stringendogliela.
«I ragazzi ti reclamano» mi congedò lei, con un ampio sorriso.
Mossi le membra ed entrai in bagno. Mi ero sempre considerato una persona di mentalità aperta ma qua si esagerava, porca di una vacca. Forse ero impazzito e nessuno aveva il buon gusto di avvisarmi. O magari era una gigantesca Candid Camera e tra un mese tutta Italia avrebbe riso della mia inarrivabile stupidità e fino all’ultimo dei miei giorni sarei stato perseguitato da sghignazzate e sorrisi compassionevoli. Ma per il momento poteva bastare, le mie sinapsi stavano per saltare. Mi asciugai le mani e tornai al tavolo a recuperare il giaccone.
«Cespuglio, che faccia» mi accolsero Loris e Domenico. «Volevi provarci pure tu, con la bionda?»
«Perché?»
«Mutismo e rassegnazione, bello mio» sospirò Loris indicando alla mia destra, dove Maria e Ludovico stavano ancora parlando. Finché Maria lo spinse contro il muro e gli infilò la lingua in bocca e le mani sotto il maglione. Ludovico chiuse gli occhi e Maria passò a trafficargli più in basso, sotto la cintura, si staccò, gli sorrise, lo prese per mano e lo trascinò via, fuori dal locale.
«Domenico?» chiamai che non erano ancora scomparsi.
«Eh?»
«Ce lo siamo già fumato tutto?»
«Inshallah, no» rispose con malinconia.

Gli antiquari e le librerie specializzate in testi antichi erano in centro, perciò incontrai ancora Ludovico. Sempre dopo il tramonto, così dedussi che le fesserie da romanzo gotico fossero vere. Per parte mia ero ormai pronto all’invasione degli Ultracorpi e all’avvento del Grande Cocomero e lui, a furia d’inciampare nella mia persona e nelle mie domande, era arrivato a raccontarmi alcune cose di sé e delle sue attività di libraio, contrabbandiere e perito illegale. Il neologismo è mio, e indica che anche certi malavitosi lo interpellavano per avere informazioni sui volumi di cui erano entrati misteriosamente in possesso e per accertarsi di avere tra le mani un’opera autentica. Potenza di una reputazione impeccabile, mi disse ridendo. Mi spiegò pure che lasciava le incombenze più noiose a certi delinquentelli locali che assoldava di volta in volta, e che ignoravano la sua vera natura. Da tutto ciò puoi dedurre come tra noi la reciproca accettazione, per non chiamarla amicizia, si reggesse sul paradosso.
Ai primi di marzo, una di quelle sere gelide che l’inverno morente sguaina per pura invidia, lo vidi venir fuori da un’agenzia di viaggi. Dopo essersi acceso una sigaretta era ripartito spedito. Non mi aveva visto. Zittii la vocina interiore che mi ammoniva a farmi i cazzi miei e lo seguii per un paio di isolati. L’unica cosa degna di rilievo fu la sua abilità nel non sfiorare i passanti neppure per sbaglio. Quando si avvicinò alla macchina lo raggiunsi e chiamandolo gli toccai una spalla. Lui schizzò girandosi dalla mia parte, io saltai indietro e una signora urlò, abbracciando la borsetta.
«Sei tu» soffiò tra i denti.
«No sono Moira Orfei» risposi col cuore ancora incastrato tra le gengive.
«Scusa, ero soprappensiero.»
«Fortuna che non eri un po’ teso.»
«E sono in ritardo. Vuoi un passaggio?» mi offrì con la faccia ancora tirata.
Il bozzo non era stato riparato e l’interno dell’abitacolo era della solita radica di nocciolina, senza pipistrelli appesi al tettuccio o altre amenità da principe delle tenebre.
Mentre manovrava per infilarsi nel traffico delle sette gli osservavo le dita sottili e nervose.
«Andrea, cosa c’è?» sparò.
«Niente, perché?»
Mi lanciò una rapida occhiata obliqua.
«Vabbè, è da un po’ che ci penso. Volevo chiederti, i due tizi di quella notte avranno avuto qualcuno che s’incazzi per loro, un capo, un fratello, chennesò. È per questo che prima sei saltato, no?»
In quel momento mi attraversò la testa l’immagine di due intere famiglie russe, mamma papà bambini gatto cane e pesce rosso, sgozzate.
«È parso strano anche a me, eppure non si è fatto vedere nessuno. Hai freddo? Sei impallidito.»
«Nessuno nessuno?»
«Nyet» accendendo il riscaldamento.
«Nel senso che tu non hai visto nessuno oppure non c’è più nessuno?»
Mi guardò. «Andrea, ti si è ghiacciata l’acqua nella testa?»
«Sì, cioè no. Voglio dire che questo ci porta alla seconda domanda.»
«Ovverosia?»
«Con la testa che hai potresti fare qualsiasi cosa. Non capisco perché non lasci perdere quella gente.»
«Quella gente paga. Credimi sulla parola, l’invisibilità è costosa e richiede investimenti continui. L’ingordigia dei funzionari statali è una delle poche caratteristiche umane ancora capaci di stupirmi.»
«Dici che vuoi tenere un basso profilo e ti vesti da becchino di lusso.»
«è teatrale, lo so, ma nasconde le macchie di sangue.»
«Ah.»
«Per quelli simili a me è vitale.»
«Non sei l’unico?»
«Siamo pochi. Molto pochi.»
«Il folklore, i film, è tutto falso, giusto?»
«In parte.» Mise la freccia e svoltò. «Tu cosa vedi?»
«Che?»
Fermi ad un semaforo.
«Ora, accanto a te, cosa vedi? Un uomo, un animale, l’orco delle favole? Cosa?»
Adesso mi mangia, pensai.
«Sto aspettando» fece, senza astio.
E dopo mangiato sputa i capelli e le scarpe, con un rutto.
«Andrea hai ragione, è sleale. Io conosco molte cose di te mentre tu osservi solo il mio attuale costume di scena.» Semaforo verde, ingranò la prima. «Vediamo. Posso trasformare un essere umano in un vampiro dissanguandolo e facendogli bere il mio sangue. Non dormo in una bara, non volo, non mi trasformo in un animale, non sono un telepate né ho capacità paranormali di alcun tipo. Ecco bravo tagliami la strada, genio. Scusami, dicevo che provo dolore e piacere come chiunque, mi rifletto negli specchi, sono più forte ed agile di un uomo comune e non manco di una certa esperienza ma sono tutt’altro che invincibile e contro una squadra armata e organizzata non ho scampo. Mi è indispensabile nutrirmi ogni quattro giorni. Posso aspettarne cinque prima che la sete diventi accecante.» Si fermò in doppia fila sotto casa mia, col motore acceso. «Che altro? Se arresto l’emorragia, le mie ferite guariscono completamente. Non sono immortale, sono cristallizzato in un presente che tre cose possono infrangere all’istante, la luce del sole, il fuoco e una punta che mi trapassi il cuore, nel qual caso non devi affannarti con paletti di frassino o punte d’argento, una pallottola o un coltello da cucina serviranno egregiamente allo scopo.» Afferrò la mia mano e se l’appoggiò sul petto. Il cuore batteva solo un po’ accelerato. «Senti? Proprio qui.» Mi lasciò andare. «Ti ho soddisfatto?»
«Siamo pari» riuscii a dire.
«Allora vai. Parto tra poche ore ed ho molta fretta» mi liquidò, sganciando il freno a mano.
Cercai nelle tasche e trovai uno scontrino e una matita.
«Per quanto?»
Una ruga di sorpresa gli apparve tra le sopracciglia.
«Qualche mese. Che stai facendo?»
Scrissi il mio numero di cellulare e glielo porsi.
«Chiamami quando torni.»
Allungò la mano e lo prese. Con due dita, come se scottasse.
Probabilmente fu quello l’innesco. Io non lo riconobbi e la fiammella seguì i lievi ghirigori descritti della miccia, fino alla polveriera. Ma erano tutte cose che quel giovedì sera ancora ignoravo. Io sapevo solo che non l’avevo rivisto dalla domenica precedente, perciò mi appoggiai allo schienale, inalai aria e premetti il tasto INVIO.

Edited by mandar - 18/6/2010, 09:47
 
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