DOCkS della Bloody Roses Secret Society

Il Secondo Avvento

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arabafelix
view post Posted on 16/12/2010, 23:40 by: arabafelix




CITAZIONE (gaiottina1 @ 16/12/2010, 20:49) 
questo attacco mi ricorda parecchio Ken Follet che fino ad una decina di anni fa era uno dei miei preferiti. Ma torniamo a noi:
concordo con mandar (una volta tanto!) secondo me qui
Il caro Ulubelen lo aveva preso per i fondelli, inviandolo in missione sulle tracce di un’antica leggenda. Così aveva detto. Balle. Il suo stimatissimo capo aveva tralasciato di informarlo che c’erano persone disposte ad uccidere, per quell’antica leggenda. Se poi era davvero una leggenda e di ciò cominciava a dubitarne. ci sono troppe informazioni: la missione, la leggenda, le balle, le persone disposte ad uccidere. Io farei una selezione.
A me la faccenda del tatuaggio non convince tanto, farsi un tatuaggio mica è tanto facile, mica basta una penna, ti devi bucare la pelle. Non so.
Mi spiace un po' che il tipo muoia, pensavo fosse il protagonista, ma va bene così:-)
il pezzo del diplomatico mi sembra ok, forse si ci vuole qualche dettaglio turco in più. Io non amo l'oriente a dire il vero. vediamo:-)

Scusa Arabafelix, sono talmente abituata ad usare l'accetta che mi scordavo quasi: ovviamente il pezzo scorre benissimo, scorrevole e fluido:-)

ho seguito i vostri consigli. Provo ad inserire il testo riveduto e corretto, mi dite se va bene?

Capitolo 1

Efeso. Turchia. a D. 2000. Marzo.

Bedir Tarsim si affrettò ad entrare nel locale, maledicendo quel vento gelido che lo aveva intirizzito. Si guardò intorno: il localino sembrava niente male. Ma gli avventori erano pochi. Probabilmente gli abitanti di Efeso avevano preferito restarsene in casa, al caldo. Andò a sedersi ad un tavolino d’angolo, sprofondando nella poltroncina di raso. Si tolse il giaccone e fece cenno al cameriere. Il ragazzo si avvicinò subito.
«Buongiorno, desidera?»
«Qualcosa di caldo»
«Tè nero, tè alla mela, saleph? Oppure perferisce una raki?»
Tarsim ci pensò su qualche secondo. Non aveva voglia di bersi un tè, e neppure la raki lo convinceva, non amava particolarmente il sapore di anice. Decise per la saleph. Una tazza di latte bollente aromatizzato alla cannella lo avrebbe sicuramente riscaldato. Il ragazzo si allontanò.
«Tempo da lupi», biascicò «Ma, appena tornato, mi sentiranno»
Il caro Ulubelen lo aveva preso per i fondelli, inviandolo in missione sulle tracce di un’antica leggenda. Così aveva detto. Balle. Il suo stimatissimo capo aveva tralasciato di informarlo che c’erano persone disposte ad uccidere, per quell’antica leggenda.
Imprecò silenziosamente. Stava andando tutto male, maledizione.
Primo: era stata l’ultima persona a venire in contatto con la vecchia custode della Casa di Meryem, prima che questa fosse assassinata, ergo la polizia lo aveva immediatamente fermato trattenendolo in caserma cinque ore filate. Cinque ore, prima di convincersi che lui non c’entrava per nulla con quella morte e di rilasciarlo, con tante scuse.
Secondo: qualcuno lo stava seguendo. Con quali intenzioni non era dato di saperlo. Ma lui non si fidava molto. Non più. E, appena a casa, si sarebbe fatto sentire. Oh sì. Non potevano pretendere troppo da lui. Come quella idea cretina di tatuarsi il messaggio sulla coscia. Ma che cosa credevano? Che fosse un agente segreto? Era un archeologo, maledizione, e rischiare la pelle per verificare un’antica storiella non rientrava nelle sue immediate aspirazioni.
Scuotendosi, buttò giù d’un fiato la tazza di latte bollente che il ragazzo gli aveva servito, lasciò il denaro sul tavolino e s’infilò nuovamente il giaccone, sollevando anche il bavero per ripararsi meglio dal freddo e uscì dal locale. Un’occhiata all’orologio. Era ancora presto, troppo presto. L’ora dell’appuntamento, visti i suoi problemi con la giustizia turca, era stato spostato alle ventidue e, non possedendo né il nome né il numero di telefono del suo contatto, la questione era chiusa.
Girò l’angolo, dirigendosi verso il suo albergo. Gli parve di notare, con la coda dell’occhio, un’ombra scomparire dentro un portone. Il cuore prese a battergli disordinatamente. Si guardò attorno: neanche un’anima. Riprese a camminare, allungando il passo. Doveva smetterla di preoccuparsi, rischiava di diventare paranoico. Ormai mancavano solo poche ore all’incontro, poi avrebbe consegnato il tutto e sarebbe rientrato immediatamente ad Ankara, con il primo volo disponibile e avrebbe smesso con quel lavoro. Una cattedra all’Università era l’ideale per lui. Niente più spedizioni fortunose. Da lontano vide l’insegna dell’Hotel. Si rilassò, era arrivato. Meno male. Si sarebbe barricato nella sua stanza e non ne sarebbe più uscito, fino all’ultimo momento.
Qualcosa lo punse sul collo. Si grattò con l’unghia. La testa cominciò a girargli vorticosamente. Il mondo gli turbinò attorno; ebbe solo il tempo di capire che stava per morire e si augurò che Ulubelen ricevesse il suo messaggio e che, inch’allah, sapesse interpretarlo. Poi ogni luce si spense.





Capitolo 2

Ankara. Turchia. Appartamenti privati del ministro Ulubelen. a. D. 2000. Marzo.

Il ministro Akim Ulubelen, stava rientrando nel suo appartamento, dopo otto, interminabili ore, trascorse in ufficio a leggere documenti redatti in un linguaggio talmente astruso da costringerlo a sforzi immani per comprendere il significato. Ma, ora, sospirò si sarebbe concesso una serata di tutto riposo.
Sulla soglia lo aspettava il maggiordomo. «Il signore si sente stanco?»
«Direi di sì» borbottò Ulubelen entrando nell’atrio.
Consegnò all’uomo il cappotto e gettò la borsa sul pavimento.
«Il signore desidera cenare?»
«No. Non subito, almeno. Portami qualcosa di comodo da indossare, e preparami il narghilè.»
«Nel salotto giallo, signore?»
«No, in quello rosso»
Precedendo il maggiordomo entrò nella sala e si buttò sulla prima poltrona che gli capitò a tiro, ripensando quello che era successo.
Bedir Tarsim aveva trovato ciò che doveva trovare e ciò voleva dire che tutta la faccenda non era da prendere sottogamba; ma ci aveva anche lasciato la pelle e questo significava che avevano davvero messo le mani su una brutta gatta da pelare. Le possibilità erano due: o Tarsim, nonostante le sue raccomandazioni, aveva commesso un passo falso, oppure, come risultava dai rapporti della polizia, era veramente rimasto vittima di un tentativo di rapina e questo sarebbe stato il minore dei mali. Nella disgrazia, una fortuna: Tarsim aveva ascoltato il suo suggerimento ed era riuscito a fargli pervenire la traccia che aspettava. Una mappa. Il luogo dove si nascondevano documenti scottanti e un terribile segreto.
Ulubelen si alzò, si diresse verso un quadro che riproduceva una veduta del Bosforo, lo tolse dalla parete. Dietro, una piccola cassaforte murata. Compose la combinazione e lo sportello si aprì, con un debole scatto. Ne trasse un foglio e un paio di fotografie, che studiò con estrema attenzione. Il corpo senza vita era quello di Bedir, disteso su un tavolo d’obitorio. All’interno della coscia sinistra, s’intravedevano un disegno, una mappa rudimentale tuttavia abbastanza riconoscibile e una scritta.

Aslan Bey. Dormiente. Iraq.

Il suo uomo aveva portato a termine la missione. Ma di sicuro non era stato abbastanza abile. Oppure non si sarebbe trovato sul tavolo di un obitorio. Tralasciando l’omicidio, Ulubelen non poteva lamentarsi di come si erano messe le cose. Trattandosi di uno dei suoi uomini, infatti, la polizia di Efeso si era messa in contatto con il suo Ministero, chiedendo lumi. E lui era salito sul primo aereo e si era precipitato sul posto. Il corpo di Bedir era stato subito inumato, su suo ordine: l’archeologo non aveva parenti stretti, per fortuna, e lui aveva potuto occuparsene personalmente, eliminando dalla faccia della terra ogni traccia di ciò che era andato a cercare. Anche la scomparsa della vecchia custode della cappella di Meryem era stata presto archiviata. Il gesto di un folle, questa la versione ufficiale. Nessuno aveva collegato le due morti. Ulubelen ripose le foto, aprì la lettera. Mancava l’intestazione:

Ho bisogno del suo aiuto. Invii subito ad Efeso un suo uomo. Deve cercare…

Ripiegò il foglio, non era necessario proseguire con la lettura, ormai conosceva il contenuto a memoria. Richiuse anche quello nella cassaforte, appoggiandolo sopra le fotografie. Andò sulla terrazza, gettò un’occhiata al Bosforo illuminato, che si stendeva sotto. La vista era magnifica, ma quella sera non riusciva a godersela. Allora tornò alla sua poltrona, sprimacciò i cuscini di velluto rosso e oro e vi si sprofondò. Poteva anche evitare di cenare: non aveva fame. Inutile anche andare a letto: non sarebbe riuscito a dormire. Tanto valeva programmare la sua prossima mossa. Chiudendo gli occhi, riprese a fumare il narghilè.
 
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