Che odore di chiuso qui! E' davvero un anno che non ci viene più nessuno nella stanza dei thriller? Apriamo un po' le finestre...
Mi raccomando, per la lapidazione usate solo sassi grandi che quelli piccoli finiscono negli occhi e sono pericolosi***
Chi invece scandalizza anche uno solo di questi piccoli
che credono in me, sarebbe meglio per lui
che gli fosse appesa al collo una macina girata da asino,
e fosse gettato negli abissi del mare.
(Mt 18,6) 1
Il primo ricordo fu l’odore morbido del terriccio umido. Aroma di muschio e funghi che risaliva la corrente del mio respiro. Dicono che la memoria olfattiva sia legata alle nostre reminiscenze più ancestrali, forse è per questo che il secondo ricordo fu rendermi conto di essere ancora vivo.
Il viso era immerso in un cumulo di foglie secche, schegge di corteccia e frammenti di fuscelli, poggiato su terra bagnata dall’autunno. Il sapore di ciò che era passato tra le mie labbra lo confermò. Aiutandomi con gli incisivi cercai di pulire la lingua e sputai ciò che riuscivo a intrappolare nella mia saliva.
Il terzo ricordo fu l’armonia di improvvise folate che suonavano le fronde degli alberi. Non avvertivo alcun alito di vento sul mio corpo, forse perché lo stormire delle foglie doveva avvenire in un posto più vicino al cielo che a me. In quel momento, se avessi avuto un po’ di lucidità, avrei solo potuto supporre che gli alberi erano alti e numerosi.
Spalancai gli occhi che ero ancora riverso a terra. Mi si presentò il viscido microcosmo di un sottobosco appena scartato dalla mia bocca. La testa pulsava come se il cuore volesse farsi strada e sostituirsi al cervello nel suo abituale alloggio. Mi voltai rotolando su un fianco accorgendomi allo stesso tempo della presenza di un piccolo zaino sulla schiena. Cercai il cielo con lo sguardo e lo trovai: grigio e nascosto dietro centinaia di rami non ancora del tutto nudi.
Il dolore alla testa si fece più acuto. Portai una mano tra i capelli con la speranza di afferrarlo e strapparlo via ma, sopra la nuca, trovai solo una lunga ferita. Le mie mani erano fredde e pallide. La pelle bianca e pulita contrastava con le dita che, carezzando il profondo taglio, si erano macchiate di sangue raggrumato. Non ero poi così certo che fosse solo quel taglio a procurarmi tutto quel dolore.
Fu in quell’istante che mi avvolse una sensazione di pericolo e presto diventò quasi panico.
Fuggire. Dovevo fuggire! Il primo tentativo di alzarmi non ebbe successo e non fu affatto agevolato da un terreno in forte pendenza. La testa, rivolta in giù, accentuava il tambureggiare dei battiti nella scatola cranica. Il secondo tentativo fu anche peggio del primo. Mi bastò provare a far forza su braccio sinistro e ginocchio destro, per capire che le fitte provenivano da più punti diversi. La manovra per mettermi in piedi precipitò assieme al mio corpo lungo la scarpata. Franai su un letto di foglie cercando inutili appigli e aumentando con regolarità la velocità con la quale scivolavo. Di forze per opporre anche un minimo di resistenza non ce ne era traccia. Alla fine mi limitai ad osservare gli alberi che mi sfrecciavano accanto, come persone ad una stazione vista dal finestrino di un treno che non fa fermate.
Rami caduti, cespugli e rocce lacerarono il caban che indossavo e mi scipparono il poco voluminoso zaino.
Il quarto ricordo fu che esisteva il tempo e che questo aveva una sua unità di misura, ma la dimensione di quello che fu necessario per completare quella miracolosa discesa non mi era possibile stimarla.
L’ultimo tratto lo feci nel vuoto. Mi schiantai in una pozza di fango che sembrò persino calda e accogliente. Il vicino rumore di acqua corrente conciliò il mio deliquio.
Non so quant’altro tempo trascorse da quando persi la coscienza a quando la ritrovai. Le sensazioni di quei momenti convulsi si susseguono nella mia mente ancora adesso come una sorta di alternanza di frammenti confusi.
Ricordo che mi svegliai grazie a rade gocce d’acqua che cadevano sul mio viso. Dischiusi gli occhi, ma non vidi nulla. Nero. Il buio più scuro e il crescente picchiettare di acqua sul mio corpo. Il primo pensiero: ho perso la vista… il secondo pensiero: sono morto e questo è il mio inferno. All’inferno pioveva.
Nell’oscurità assoluta potevo tastare la fanghiglia in cui mi trovavo e sentire la pioggia, ormai scrosciante, drenata da quello che doveva essere un fitto bosco che mi circondava. Un lampo proiettò nella mia mente l’immagine inquietante di alberi che sembravano intimoriti dalla mia presenza. Almeno la vista non mi aveva abbandonato, mancava da capire se invece fossi morto.
Un tuono fragoroso riecheggiò per lunghi istanti. La pioggia si intensificò. Lampi intermittenti mi raccontarono che ero precipitato in un dirupo, che era notte fonda e un temporale allarmato per le mie condizioni si era preso la briga di svegliarmi. Brancolai, arrancando verso quella che sembrava una parete di roccia e il mio sforzo fu premiato con la scoperta di un angolo asciutto su cui poter riversare un po’ di umidità.
Le ossa, forse non del tutto intere, erano certamente bagnate. In quell’anfratto passai alcune ore di quella interminabile notte, nella speranza di arrivare all’alba e scoprirmi ancora vivo. Lampi e tuoni si susseguirono tanto da non riuscir più a capire cosa fosse causa e cosa effetto. L’avara ma intensa luce prodotta dai fulmini era una benedizione che spezzava la monotonia di tenebre che al contrario erano fin troppo generose. Il temporale se ne andò lasciandomi in compagnia del gocciolare delle piante. Poi arrivò un inatteso odore di bruciato. Vidi del chiarore e sperai si trattasse dell’alba. Ma era molto meglio di un’aurora immatura, si trattava di un albero che bruciava dopo esser stato colpito da un fulmine. La pioggia era cessata e tanto bastò per convincermi a strisciare fino al tronco in fiamme.
Il quinto ricordo fu la sensazione di benessere innescata da quel calore e il profondo senso di gratitudine nei confronti di quel fuoco crepitante. Mi sfiancai per togliermi il cappotto caban. Molto di più per sfilarmi il maglione. Alcuni rami spezzati mi aiutarono a stendere quei due indumenti e avvicinarli il più possibile all’albero incendiato. Tremavo mentre osservavo l’alone generato dal vapore. Era un buon segnale e quando questo si attenuò sparendo del tutto, decisi che era giunto il momento di consumare anche l’ultima energia rimasta nel mio corpo.
Togliersi gli scarponi, i pantaloni, la camicia e tutto il resto fu un’operazione talmente ardua da consumare le mie ultime forze residue. Misi tutto ad asciugare e rimasi coperto dal solo caban che mi fece da mantello.
Mentre mi spogliavo ero riuscito anche a constatare le condizioni del mio fisico. Le gambe avevano lividi ed ematomi, graffi ed escoriazioni, ma sembravano ancora intere. La caviglia destra era gonfia. Il torace era ricoperto da numerose tumefazioni. A giudicare dal dolore che provavo nel respirare, qualche costola doveva essersi incrinata o forse addirittura rotta. Le mani erano ricoperte da piccole lacerazioni provocate dagli inutili sforzi compiuti nel tentativo di aggrapparmi a qualcosa che potesse rallentare la caduta. Sulla testa una ferita gonfia e dolorante.
Avevo vissuto in maniera frenetica quegli eventi angoscianti e fu uno strano istinto di sopravvivenza che mi aiutò a trattenere nella mente i primi cinque eventi significativi di quella giornata. Non ho più memoria di quale fu la precisa sequenza temporale dei ricordi dopo il sesto, ma quello lo rammento bene.
Il sesto ricordo furono tre domande:
cosa ci faccio qui? dove sono? e io… io chi sono? Poi mi addormentai o persi ancora coscienza
Ovviamente della trama non di nulla corretto?