DOCkS della Bloody Roses Secret Society

Veleno e Pozioni d'Amore, di Imogen Barnabas

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barbarabsi
view post Posted on 5/10/2013, 15:52




Certo contare su un weekend con un regista fascinoso dallo sguardo magnetico è quanto di più auspicabile tanto più se serve a lasciarsi dietro le spalle un marito anaffettivo e un amante spocchioso. Peccato che gli uomini siano tutti uguali: detestabili personaggi che ti fregano il tappo del serbatoio e ti danno buca all’ultimo momento e infine ti comunicano per telefono di volere il divorzio. Come meravigliarsi che Dominque forte dei suoi riccioli dorati e dei suoi alluci vanitosi abbia deciso di suicidarsi? E di farlo proprio a casa di Lyssa ineffabile amica d'infanzia con la strana passione per erbe e pozioni? Sì, perché Lyssa non a caso ha deciso vivere lontano dalla civiltà in una casa tra i boschi in Provenza...

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Imogen Barnabas
Veleno & Pozioni d'Amore



(per leggere i primi 5 capitoli tutti di seguito nella loro versione definitiva cliccare sulla cover)



Capitolo 1

Capitolo 1
Un iPhone penultimo modello

“Il barbone trovò l’anello di diamanti nel piattino ma non lo vendette. Tutto quel denaro sarebbe stato troppo per lui. Lo avrebbe tenuto da parte nel caso qualcuno venisse a riprenderselo. Così, quando Sarah Darling e il marito sono arrivati disperati in cerca dell’anello già convinti di non ritrovarlo mai più, hanno scoperto invece che Billy lo ha tenuto per loro. La notizia fa il giro del mondo; riconoscenti, i due organizzano una colletta mondiale che oltre ad aver riunito Billy “Garbage” Ray ai familiari, ha già messo sul suo conto oltre 200 mila dollari…”
Lo schermo saltò su un telefilm.
«E chi se la beve. Solo i giornalisti possono credere a queste cazzate» il commesso dell’autogrill sbottò rivolgendosi alla collega. Poi si girò finalmente verso la coda: «Chi devo servire?» Dominique alzò timidamente la mano come a scuola, ma una ventenne in forma smagliante intenta a digitare messaggi su un iphone 5 con cover di strass le passò davanti urtandola, senza nemmeno vederla. Dominique scusandosi cominciò comunque ad appoggiare sul banco due cioccolatini e una bottiglietta d’acqua e approfittò dell’attesa per spiare la propria immagine nello specchio dell’espositore per occhiali. Quando infine mise quattro euro sul piatto poggia-monete aveva deciso che non troppo in là nel tempo si sarebbe fatta dare un ritocchino; ormai bastava un niente per appesantirle l’espressione. A volte le sembrava di essere come un iphone non più d’ultimo modello, buono ormai solo per fare confronti con le nuove superdotazioni. Sorrise dolcemente allo specchio: ma Uppert c’era e aveva scelto lei.
Uppert e quegli gli occhi colore del mare, capaci di evocare tutta la profondità della disperazione di un bimbo quando si accorge di essersi messo in una storia troppo grande e troppo sbagliata per lui. Sì, Uppert che la guardava ogni volta così; e a quel tormento tanto azzurro Dominique proprio non sapeva resistere.
«Signora…?» disse gentilmente il cassiere. Anzi, per la verità lo ripeté.
La signora si volto a guardarlo.
Si chiamava Dominique perché era nata nel “giorno del Signore” e sua madre, di origine italiana e cattolica convinta, aveva deciso di ricordare ad perpetuum questo dettaglio della sua vita, coniugando il nome della figlia con quello della domenica. Senza rendersi conto che, in questo modo, aveva impresso nella vita di Dominique due caratteristiche che non l’avrebbero mai più abbandonata. La prima era che la figlia, effervescente come un’aspirina, sarebbe sempre stata estremamente riluttante a onorare e obbedire a qualunque “signore” - appartenente all’Empireo o più terreno - che cercasse di imporle un qualsiasi tipo di regola; la seconda era che Dominique, evanescente come la polvere delle ali di una farfalla o come lo chiffon di una sottana - avrebbe sempre gradito attribuire a se stessa quel titolo “signora”. Se lo meritava: poche donne avevano la sua grazia e quel buon gusto nel muoversi attraverso le difficoltà di una vita carogna, per quanto a volte se ne dimenticava. E poche donne erano dotate della sua generosa, coinvolgente e colorata pazzia. Quel giorno più che mai.
Sorpresa e un po’ imbarazzata, come se il cassiere avesse avuto la magica capacità di leggerle nel pensiero, arrossì leggermente e sorrise all’addetto che la fissava dall’altra parte della cassa.
«Ecco… » e consegnò lo scontrino, sorridendo con un’aria che a Dominique parve comprensiva. Non sarebbe stato poi così strano se l’uomo fosse stato in grado di leggere nel pensiero di tutti coloro che passavano ogni giorno nell’autogrill. Le autostrade sono posti così strani, luoghi dove si può incontrare davvero chiunque e dove tutto sembra possibile. Del resto la sua euforia trasudava e, se il cassiere era davvero magico – e ormai, Dominique aveva deciso che lo era - in quel momento la stava certamente invidiando.
Pagò, radunò i suoi acquisti e gettò una rapida occhiata al monitor sospeso dietro il banco.
Lasciandosi alle spalle l’odore di brioche e caffè dell'autogrill, salì in auto e si diresse ai distributori. E con suo enorme disappunto vide che non c’era il personale addetto alle pompe.
«Oh, no!» sbottò, inchiodando.
Una vistosa BMW grigio metallizzato inchiodò a sua volta dietro di lei e qualcuno alle sue spalle si attaccò con ostinazione a un nervosissimo clacson; Dominique guardò nello specchietto retrovisore e accennò un rapido gesto di scusa con la mano; aveva intenzione di scusarsi meglio, naturalmente, come ogni vera signora; ma adesso doveva risolvere un problema assai più grave: non era mai stata capace di fare il pieno da sola.
«Calma, Dominique, calma» si disse «in un modo o nell’altro ne verremo fuori.»
Accostò dolcemente vicino agli erogatori, tenendo d’occhio la BMW che la seguiva a ruota. Spense il motore e aprì lo sportello, poi fece uscire la prima delle sue affusolate gambe in calza velata su Chanel con tacco rosso pompiere – i sandali preferiti di Uppert – si sporse e sorrise al padrone della BMW.
Un sorriso candido e irresistibile. Il sorriso più ingenuo e simpatico del mondo. Solo le bambine sanno sorridere così.
L’uomo aprì a sua volta lo sportello e uscì dall’auto, ricambiando, sorpreso e appoggiandosi al tettuccio. Dominique fece per dirigersi verso di lui ma l’uomo le indicò l’auto:
«La borsetta, signora… Meglio non lasciarla incustodita.»
Lei sorrise, rientrò nell’abitacolo lasciando che l’orlo svolazzante della gonna di seta si sollevasse capriccioso sui polpacci e ne uscì con la borsa e la chiave dell’auto, per dirigersi a passettini rapidissimi verso quello che nella sua mente era già diventato un salvatore.
BMW, visibilmente stanco, visibilmente nervoso e visibilmente di mezza età, si tolse gli occhiali da sole e si tamponò la fronte con un fazzolettino di carta apparso dal nulla, così giallo e macchiato che avrebbe potuto benissimo essere quel che rimaneva del cartoccio di una frittella. Dominique sorvolò sul senso di repulsione alla vista del fazzolettino e della camicia non proprio freschissima dell’uomo. Da qualche parte in fondo alla mente, passò la consapevolezza su chi fosse costui, evidentemente un uomo d’affari che aveva viaggiato troppi giorni senza dormire né farsi una doccia; ma tutto questo, nell’imminenza, non aveva alcuna importanza. Dominique era senza benzina, aveva già perso parecchi minuti preziosi nel Duty Free Area e adesso aveva fretta. Così, valutando in un batter d’occhi la direzione del vento e giudicandola favorevole, gli si avvicinò abbastanza perché lui sentisse la fragranza del suo olio essenziale di rosa, mantenendo tuttavia una distanza di sicurezza sufficiente a non sentirsi infastidita dalla sua traspirazione. Poi sgranò su di lui il paio di turchesi che aveva al posto degli occhi, dono del nonno paterno, e sbatté le ciglia vellutate di mascara marrone a mo’ di ala di farfalla. Un inatteso flap flap colse BMW che si sentì improvvisamente più allegro, meno stanco, meno nervoso. Ma senza dubbio un pochino più sudato.
«Mi scusi per prima, io sono davvero così imbranata … ma provo un forte imbarazzo, quando vedo un distributore senza personale addetto. Mi fa lo stesso effetto che mi farebbe vedere un uomo tutto nudo con i calzini.» Dominique scoppiò a ridere e l’uomo d’affari stanco sudato e che aveva viaggiato troppo non poté trattenere a sua volta una risata.
«Ecco, disse, si fa così» e cominciò a illustrare con fare esperto e sicuro la procedura di auto rifornimento, senza perdere d’occhio nemmeno per un istante il contatore della benzina, la propria BMW e i sandali di lei. Che sorrideva estasiata al pensiero della benzina che sgorgava nel suo serbatoio.
«Io davvero non so come sia possibile. Devo confessarle una cosa.»
Lui la guardò negli occhi e pensò al mare.
«La verità è che i distributori non mi imbarazzano,»
L’uomo scese con lo sguardo alla scollatura della camicetta di velo rosso, sotto il copri cuore in tinta.
Ricominciò di colpo a sudare. Dominique, invece, continuava a sorridere:
«Perché la verità è che mi terrorizzano proprio!» poi scoppiò di nuovo a ridere, e anche lui. Intanto Dominique cercò di ignorare la puzza di benzina sperando che non si impregnasse nella seta della gonna. Si mosse rapidamente da una parte all’altra, allungando il collo per seguire le spiegazioni di quel signore, spiegazioni tanto gentili quanto del tutto inutili.
«Lei non ha idea di quante volte mi abbiano detto come si fa ma non riesco proprio a farmelo entrare in testa» e scosse il caschetto di riccioli biondi, che si mossero armoniosamente tutti insieme come violini di un’orchestra.
«Semplicemente, quando vedo un distributore senza l’omino, mi paralizzo. Ecco. Mi paralizzo proprio. » E gli piantò di nuovo addosso i turchesi. L’uomo, riconfermato nella propria virilità, incastrò con un secco colpo deciso la pompa nell’apposito sostegno e le sorrise. Sentendosi irresistibile, e pensando alla prossima mossa, che sarebbe stata…
«Non so proprio come ringraziarla» cinguettò lei. Lui fece per aprire bocca; Dominique sbatté le ciglia un paio di volte, rinnovò un sorriso smagliante e poi:
«Uh!» strillò «Ma è tardissimo!»
Lanciò un paio di sguardi intorno, improvvisamente angosciata.
«Arriverò in tempo…? Mi aspettano! Devo scappare!»
Era già in auto.
«Grazie! Lei mi ha davvero salvato la vita!» gridò chiudendo lo sportello dell’auto, «Non la dimenticherò mai!»
Diede una rapida occhiata nello specchietto retrovisore, senza riuscire a dare un significato all’espressione delusa e improvvisamente moscia del suo eroe, che rimase sullo sfondo di quella meravigliosa mattina con le braccia penzolanti in maniera desolata. E con qualcos’altro che penzolava dalle sue mani, Dominique non ebbe tempo di capire esattamente cosa fosse.
Accelerò decisa a immettersi nell’autostrada: verso Uppert, ossia verso il suo personale paradiso.
Era la seconda volta che percorreva quegli 800 kilometri per vederlo. 800 km verso sud-est, e poi ritorno. Uppert non era esattamente dietro l’angolo, ma questo era un dettaglio irrilevante. I suoi occhi malinconici e maliziosi allo stesso tempo, la sua mascella così perfetta e quel suo naso “americano” l’avevano fatta impazzire. Si erano conosciuti in chat, proprio come in una favola, e lei aveva saputo da subito di amarlo. Ci sono quelle situazioni in cui le cose si sanno e basta: ecco, con Uppert era proprio una di quelle.

Prima di lasciare l’area di servizio accostò per selezionare una play list sul iPod e pigiò il rewind su It’s a hard life: quella canzone era proprio adatta a lei e alla sua vita di eterna innamorata, convinta che l’amore potesse essere l’unico balsamo, l’unica panacea ad ogni problema della vita.
Chissà cos’era successo, poi, con gli altri. Qualche volta aveva iniziato a chiederselo, senza tuttavia darsi mai una risposta, perché si era sempre distratta prima di arrivare a sviscerare bene come fossero andate le cose. Del resto, adesso che c’era Uppert non valeva neppure la pena di scoprirlo. Sembrava proprio che le parole del caro, buon vecchio Freddie fossero profetiche: “Adesso sto spettando qualcosa che cada dal cielo, sto aspettando l’amore”.
“E speriamo che cada proprio questo, stavolta, non una frana o una grandinata come al solito”, pensò Dominique, sintonizzandosi sul battito irregolare e rapidissimo del suo cuore.
Dove sarebbero andati insieme, si chiese, pregustando l’incontro. Stavolta lui avrebbe voluto fare l’amore. L’avrebbe portata a casa sua, magari sua moglie era via, fuori per lavoro. O forse in studio? Il sancta sanctorum di ogni regista? Sì, lei voleva farlo lì. Se lui glielo avesse chiesto, se le avesse lasciato scegliere il posto, sarebbe stato lì che gli avrebbe detto di andare. Voleva fare l’amore con lui per terra, ai piedi della sua cinepresa. Un ovvio tributo all’Arte e ai suoi Dei.
In quel momento squillò lo smartphone. Era Uppert. “Telepatico”, pensò sorridendo, e rispose mettendolo in viva voce.
«Ciao stellina» disse la bella voce d’argento dall’altra parte di chissà dove.
Come sempre quando lo sentiva dire “stellina” perse letteralmente l’uso della ragione – la poca di cui era ancora dotata – e si sciolse come un gelato sull’asfalto di Ferragosto. Cominciò a balbettare come un’adolescente e rise. Rise, sì, di euforia e di gioia.
«Ciao, Uppert» riuscì a rispondere infine e udì dall’altra parte l’eco della sua voce. «Ma dove sei?»
Uppert aveva una voce così dolce che sembrava sempre che parlasse sorridendo.
«C’è un problema, stellina. Un imprevisto, dobbiamo rimandare il nostro appuntamento di oggi.»
Dominique sorrise nervosa, sentendo improvvisamente freddo:
«Stai scherzando» azzardò. Senza esserne del tutto convinta.
«Purtroppo no, stellina. Mi dispiace. Ho solo pochi minuti prima di rientrare in studio e continueremo per l’intero weekend. Ti ho chiamato appena ho potuto.»
«Uppert, mi mancano meno di cinquanta chilometri per essere da te. Come ti viene in mente di farmi uno scherzo del genere?»
«Ma non è uno scherzo, stellina. Abbiamo deciso di rivedere alcune cose in un paio di scene, con i ragazzi della troupe, e non possiamo proprio rimandare. Dobbiamo chiudere le registrazioni. Mi dispiace.»
«Ma come “non possiamo rimandare”? Ma che vuol dire, scusa? Io sto arrivando lì da te, sarò lì tra mezz’ora. Ho anche un regalo…»
«No, mi dispiace, non posso. Scusami, mi stanno chiamando, dobbiamo riprendere. Ciao stellina, a presto. Ti voglio bene, non dimenticarlo.»
Click.
Mortale.
Freddo come una tomba.
Una tomba pure l’abitacolo, ora che la bella voce d’argento del regista più figo che lei avesse mai conosciuto al mondo stava tacendo.
Mormorò: «Mancavano solo cinquanta chilometri, maledizione» e gettò un'occhiata mesta allo smartphone fiaccamente appoggiato sul sedile fianco conducente, cercando di capire quale fosse l'uscita autostradale che le avrebbe permesso di invertire il senso di marcia e di rientrare delusa a casa. Ma in quel momento vide la goccina gialla del puntatore brillare proprio poco distante da dove si trovava lei, indicando caparbiamente la scritta “Lyssa”. Sembrava un dito indice puntato con insistenza proprio su quel nome.
Dominique trattenne per un brevissimo istante il respiro ma un’ondata di calore le si diffuse in tutto il corpo. Lyssa e la sua Provenza non erano lontane, non abbastanza lontane per permetterle di arrendersi al grigiore della sua vita.
Lyssa Salvaggio e il suo strano modo di farsi obbedire da ogni essere vivente nel buen ritiro della Provenza non distavano ormai di più di una ventina di chilometri.
Dominique innestò la prima e si inserì nel flusso autostradale.
Tastò la borsa appoggiata sul sedile a fianco e introdusse la mano. Ne emerse con il flacone di Halcion e lo stappò abilmente con il solo pollice, badando che il coperchio ricadesse sul sedile. Lo accostò alla bocca e per qualche istante rimase così: un occhio alla strada e il flacone poggiato sulle labbra. Era rimasta solamente una pillola. Lanciò un’occhiata al tachimetro. Il motore strideva ai 200 all’ora, eppure non le sembrava di premere così tanto sull’acceleratore. Poi, da qualche parte nella sua mente ottenebrata affiorò il suggerimento di cambiare marcia. Diede ancora un colpetto al flacone e sentì scendere sulla lingua qualche granello di polvere. Le aveva finite. Non era giusto, caspita, anche questa ci mancava. Le aveva finite.
Afferrò la leva del cambio per mettere la quinta. La visione della strada non era nitida perché dei grossi lacrimoni le offuscavano la vista. “Dobbiamo terminare le riprese. Mi dispiace” le aveva detto lui e un grosso nodo tornò a salire dallo stomaco verso la gola. Si sentiva come una bambina a cui è caduto a terra il gelato. Abbassò il finestrino perché entrasse un po’ d’aria nell’abitacolo e si strofinò gli occhi con la mano, incurante del pasticcio di mascara che le imbrattava il viso. «Ci deve essere uno svincolo tra poco» mormorò osservando le indicazioni. Avrebbe voluto ucciderlo. Non sopportava di essere respinta e ora un marasma di emozioni le rivoltava cuore, stomaco e cervello. Era così delusa. Anche se lei aveva gli occhi turchesi più belli del mondo e in più la voce più argentina che si fosse mai udita. Eppure non era bastato con Uppert e non bastava mai.
Che le aveva detto…? L’eco delle sue parole rimbombava nella sua testa, e solo lì, purtroppo: “Ti voglio bene, devo rientrare, stellina, non dimenticarlo” o qualcosa del genere. In qualche punto della loro storia nata e cresciuta esclusivamente in chat e su Skype, doveva anche averle detto “Io non sono come tutti gli altri”.
E lei naturalmente gli aveva creduto.
L’auto procedette la sua corsa sull’autostrada probabilmente per inerzia, quasi in maniera del tutto autonoma e sicuramente incoerente, via da un appuntamento mancato. Verso la perdita del paradiso.
In termini tecnici, verso un vero e proprio bidone.
Stava andando da Lyssa ma non aveva senso nemmeno quello, era evidente. Avrebbe dovuto tornare a casa. “Casa”? pensò. Un’ assurda casa vuota, una relazione inesistente, un marito che non c’era e un amore finito ormai chissà dove, potevano definirsi “casa”?
Non c’è nulla di peggio di un “no” quando sei all’apice dell’entusiasmo e dell’eccitazione e ti aspetti di toccare il cielo con un dito. Dominique, come un aquilone a cui all’improvviso il vento aveva fatto lo scherzo di sottrarsi, si sentì schiantare miseramente a terra. E oltretutto, quella situazione aveva un retrogusto di umiliazione che non le andava giù.
Pigiò automaticamente sull’acceleratore quando, gettando un’occhiata distratta nello specchietto retrovisore, notò in distanza dietro di lei il lampeggiante di un’auto scura.
«E levami quei fanali e sorpassami, maledizione, non posso andare più veloce di così…»
Finalmente vide lo svincolo e imboccò l’uscita che l’avrebbe condotta da Lyssa.
Come se non bastasse d’improvviso lo smartphone cominciò a vibrare e a lampeggiare.
Lei si risollevò sbuffando. Chissà chi era, pensò, sperando fosse Uppert. Invece era Jacques.
Sorpresa, rispose.
Il “Ciao” freddo e metallico di suo marito risuonò all’altro capo della linea.
«Ciao… Ma dove sei…?» chiese lei.
«Devo parlarti» sillabò lui.
Dominique si allarmò. Quel tono perentorio le fece pensare dapprima che lui avesse scoperto di Uppert. Ma subito dopo si rassicurò: in fondo lei era oggettivamente sola e sulla strada della casa di Lyssa e non aveva nulla da temere.
«Ho dietro un’auto che mi lampeggia… Se non c’è nulla di urgente possiamo sentirci più tardi? Anche perché sono in Provenza, adesso…» azzardò.
«Non ha importanza dove sei. No, non è il caso di rimandare, preferisco metterti subito al corrente. Ho appena incontrato il mio legale. Ho avviato la pratica di divorzio.»
Dominique rimase a fissare il nastro d’asfalto davanti a sé. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma le parole non le uscirono. Dopo qualche secondo riuscì finalmente a ripetere:
«… Divorzio…?»
«Sì» rispose lui, secco. «È finita.» Poi riagganciò.
Lei rimase con la bocca aperta e lo sguardo fisso per un lungo paio di minuti, incapace di reagire. Incapace di muoversi, di spegnere il telefono, di pensare, di fare qualunque cosa. Da dove l’aveva chiamata? Le aveva davvero comunicato che intendeva divorziare? O si trattava di un incubo causato da quella misera pillola di Halcion?
Guardò stupidamente l’orario sul cruscotto e si accorse che cominciava a sentire un tremendo dolore al petto.
«Ovvio» pensò, «sto per avere un infarto»
Quanto ci avrebbe messo a ucciderla? Quanto ci avrebbe messo Jacques a venire a recuperare la sua salma in Provenza? Ma l’avrebbe fatta recuperare, poi? Del resto lei non era nel letto di casa sua con il suo quasi ex-marito. Probabilmente, là con lui, adesso, c’era l’altra. Sentì di nuovo la morsa dell’ansia stringerle la bocca dello stomaco e ripensò all’Halcion: se ne doveva procurare una bella scorta. Le mancava l’aria, così si alzò e si avvicinò al finestrino per respirare meglio.
«… Divorzio…» disse ancora tra sé come inebetita. Buttò la testa all’esterno e si sporse per guardare meglio in alto, verso il cielo scuro.
«… Divorzio…» ripeté di nuovo mentre nello specchietto laterale, dietro il riflesso dell’espressione da coniglio che le veniva quando piangeva, riconobbe l’avantreno di un’auto civetta.
Dominique si irrigidì e cominciò ad avvertire la nota pulsazione in cima alla testa, preludio ad un’emicrania che le sarebbe durata almeno tre giorni.
Il lampeggiante si avvicinò di gran carriera. Era un’auto della polizia e Dominique si portò sulla destra per dare strada, nonostante al casello d’uscita mancassero poche centinaia di metri. Sentì una cosa leggerissima e tiepida sulla guancia destra e quando si sfiorò si accorse che si trattava di una lacrima. Con la mano fece segno di superarla all’auto che sopraggiungeva puntandole contro gli abbaglianti e che, in quel momento, l’affiancò. Un agente dagli occhiali a specchio che sembrava l’agente Poncherello di Chips ricambiò il gesto, con un inequivocabile invito ad accostare.
«Ma che diavolo hanno le stelle stasera contro di me?» sbottò Dominique. Mise la freccia e si fermò nell’area di sosta prima del casello. L’auto della polizia si fermò esattamente davanti alla sua, e i due agenti scesero, con i loro berretti, le pistole d’ordinanza e i loro ridicoli quanto fuori luogo occhiali da sole a specchio. Tra poco si sarebbe scatenato il diluvio universale.
«Puah… uomini. » mormorò tra sé Dominique. E si limitò a spegnere il motore. Rimase in attesa, fissando i propri alluci laccati di rosso che spuntavano vanitosi dagli Chanel. Se solo tutto questo fosse accaduto mezz’ora prima, lei avrebbe affrontato quei due palloni gonfiati con tutt’altro spirito. Ma adesso era troppo a terra. Così lasciò perdere gli alluci e la calza velata e abbassò il finestrino.
«Viaggio sola e non mi fido di nessuno. Nemmeno di voi.» Li aggredì.
I due si guardarono e Poncherello le sorrise con gentilezza, mentre l’altro, Larry Wilcox probabilmente, aggirava l’auto di Dominique per controllare chissà cosa.
«È tutto a posto, signora. Ma lei sta viaggiando con lo sportellino del serbatoio della benzina aperto…»
« … e senza tappo » aggiunse Wilcox da dietro.
«Cosa accidenti stanno dicendo?» pensò Dominique. E balbettò: « Beh, non sarà poi così grave, no…?»
«Potrebbe essere molto grave, invece signora. Deve aver fatto parecchia strada così.»
“Quell’idiota con la BMW!” pensò con improvvisa lucidità Dominique, rivedendo nella mente l’immagine dell’uomo nello specchietto retrovisore. “Ecco cosa aveva fra le mani! Altro che sedotto… Maiale.» Lei era davvero ormai un iphone indietro di un paio di modelli. Destinato al cassetto degli oggetti dimenticati e inutili.
Poncherello le si avvicinò e notò il suo viso sconvolto:
«Va tutto bene, signora?» chiese, scrutando all’interno dell’abitacolo.
«Razza di idiota, tu e tutto il genere maschile! Ma come si fa ad essere così stupidi? È evidente che non c’è nulla che vada bene! Basta guardarmi!» urlò lei. Ma solo nella sua mente.

Capitolo 2
Incontri inattesi

Non avrebbe più rivolto la parola a un essere umano di sesso maschile per tutta la vita. Con quel pensiero fisso in testa, tra una curva e una lacrima, Dominique riuscì infine a trovare una stradina sterrata appena prima di un tornante a gomito, e qui un cancello aperto. Giunta innanzi alla casa spense fari e motore e scese dall’auto. In quel momento, da una finestra del pian terreno si affacciò Lyssa. «Eccoti!» risuonò la sua voce allegra. La vide solo per un attimo, poi l’amica sparì. Lyssa era sempre imprevedibile e anche lo scherzo di trasferirsi lontano dalla città era stato un fulmine a ciel sereno.
Dominique ricordava bene il mattino in cui aveva acceso il Pc e su Facebook aveva ricevuto un invito all’evento “Mollo tutto e vado via”. Lyssa aveva messo in vendita tutto ciò che possedeva così, in rete, appartamento compreso, perché aveva trovato un posto che le piaceva in Provenza.
«Non puoi farmi questo!» aveva commentato Dominique.
«Che intendi dire?»
«Se te ne vai, io come faccio?»
«Non essere stupida» le aveva risposto Lyssa, secca, «e asciugati quelle lacrime, sono eccessive, inappropriate e fuori luogo, riesco a vederle fin qui dietro al mio schermo. Il posto dove voglio andare io è bellissimo: è in mezzo ai boschi, lontano da tutto e da tutti e dalla generale stupidità umana e ha un sacco di terreno intorno, con alberi da frutto già adulti. La domanda giusta non è “Se te ne vai, io come faccio” ma “Che ci sto a fare io, qui?”»
Lyssa si era ritirata nei boschi nel giro di tre mesi.
Dominique osservò le mura e le finestre scrostate del vecchio casale, poi fece per prendere il poco bagaglio che aveva con sé, quando la voce dell’amica alle sue spalle la fece sussultare.
«Dominique la favolosa, questa sì che è una sorpresa!»
Si voltò. Una figura alta e morbida drappeggiata in uno scialle intrecciato di fili argentati si stagliava contro la parete bianco calce illuminata dalla luce della luna. Nel viso da driade incorniciato da una massa spettinata di riccioli scuri, lo scintillio malizioso di uno sguardo d’onice sembrava brillare nel buio. Lyssa rideva con gli occhi anche quando sembrava del tutto seria. Dominique le corse incontro e Lyssa l’accolse nel suo abbraccio generoso e forte.
«Sei una bomboniera» le rispose Lyssa allegramente, poi la precedette all’interno.
Dopo mezz’ora e un ampio resoconto della tragedia della sua vita, Dominique piangeva a bocca aperta. Spingeva in giù gli angoli della bocca socchiudendo gli occhi e si mangiava con il labbro superiore quello inferiore, ingoiandolo fino al mento.
«Su, su, basta fare quel musino da coniglio» la abbracciò Lyssa .
«Non ho costruito nulla. Non ho nulla. Sono una bolla di sapone» singhiozzò Dominique senza ascoltarla.
«Andiamo a dormire, si è fatto tardi» Lyssa la prese per mano e la fece alzare.
«Non sono mai stata previdente, non sono mai stata intelligente, non sono mai stata furba… » continuava Dominique salendo lungo le scale al piano di sopra.
Lyssa l’accompagnò nella stanza degli ospiti, continuando a sorridere. Sulla soglia, la interruppe:
«Smettila di blaterare lamentele e cerca di riposarti seriamente. Domani mattina abbiamo da fare.»
«Da fare?!» esclamò Dominique. «Non credo di avere…»
«Ti presto io tutto quel che occorre» l’anticipò Lyssa. «A nanna adesso, su»
Le due donne si guardarono per un lungo istante negli occhi. Le iridi blu di Dominique e le iridi nere di Lyssa e qualcosa, in fondo allo sguardo, che rinnovava l’antico patto.
Dominique chiese:
«Te la ricordi, la vecchia casa in cui siamo cresciute?»
Lyssa annuì in silenzio.
«Anche là c’era una scala come questa. Si saliva e si andava dritti davanti a una finestra che dava verso la piazza del paese, sul campanile. Contavamo i rintocchi delle ore. E di notte, da là entravano le lucciole… Te lo ricordi?»
«Mi ricordo tutto» bisbigliò Lyssa. Poi le porse una camicia da notte pulita, presa da un cassettone che troneggiava nel pianerottolo, e le indicò il bagno in fondo al corridoio.

Dominique, stanca morta, si spogliò e indossò la camicia da notte che le aveva prestato Lyssa, candida e profumata di lavanda, morbidissima, di pelle d’uovo. Aprì la finestra per assaporare i profumi della notte, spense la luce e appoggiò la testa sul cuscino, rimanendo a fissare il nero cielo provenzale punteggiato di stelle che s’intravvedeva dalla porta finestra. Ogni tanto lanciava un occhio al cellulare sul comodino e finì con il prenderlo in mano. Per metterlo in carica, mentì a sé stessa. Ma dopo aver inserito la presa al posto di quella dell’abatjour, continuò a fissarlo. Il telefono rimaneva inequivocabilmente e ostinatamente muto, finchè lei non cedette e si connesse su facebook e, di qui, sul profilo di Uppert. Non c’erano nuovi post e così, come per scherzo, cominciò a scrivergli un messaggio, ben sapendo che non avrebbe mai avuto il coraggio di spedirlo.
L’immagine del telefonino si dissolse dietro ad un velo liquido, che quando tracimò in forma di lacrima lasciò riaffiorare i caratteri del messaggio minuti come le stelle nel cielo nero oltre la finestra.
Nell’osservare quel messaggio chilometrico pensò al vaso di Pandora. Togliere il coperchio ai ricordi su certi argomenti equivaleva a iniziare a piangere senza più riuscire a fermarsi. E automaticamente riprese a scrivere frenetica, riversando sul tastierino dello schermo tutto ciò che le passava per la testa. Riusciva a malapena a veder scorrere la traccia nera lasciata dalla frase, mentre grosse lacrime brucianti sgorgavano, andando a spiaccicarsi sulle sue squallide storie d’amore. Lo sapeva che sarebbe finita così.
«Amara come oggi credo di non esserlo stata mai…»
Aveva cominciato a scrivere di Jacques e del divorzio. Non le ci era voluto molto per scivolare in un’aspra reprimenda sulle manchevolezze dell’ormai ex marito, sciorinando anche le sue infinite défaillances sessuali, per passare infine a toni allarmistici. Così lasciò in sospeso il post per Uppert, aprì un’altra scheda e scrisse un altro immaginario messaggio, destinato questa volta a Jacques. Quand’ebbe terminato senza spedire peraltro nemmeno una sillaba, passò al diario di Edward, il super stronzo che le aveva definitivamente affossato quel poco di autostima che le rimaneva.
Anche al grand’uomo e all’intellettuale snob ne aveva, di cose da dire… Digitò frenetica per diversi minuti, poi si lasciò ricadere sul cuscino. Il fatto era che nel giro di poche ore era successo di tutto, e la sua vita aveva preso una piega che non si sarebbe mai aspettata. Che fosse colpa di Uppert? Che portasse sfortuna? La notte prima di partire aveva sentito il canto della civetta, le sembrava che fosse proprio sul tetto di casa. E se fosse stato un presagio di morte e quella civetta avesse davvero cantato per lei? Ritornò al messaggio per Uppert, che aveva solo cominciato a scrivere, e riprese a digitare con più lena di prima.
Di tutti gli uomini che aveva incontrato nella sua vita, Uppert era il più affascinante. Bello oltre misura, magnetico, misterioso e irraggiungibile, con quel suo esserci e non esserci mai… Lo aveva desiderato da morire. Ma tutte le ragazze avrebbero dovuto sapere quali insidie nascondono i tipi così. A quel punto, fu tentata di trasformare il messaggio ad Uppert in un post pubblico sul suo diario.
L'indice restò sospeso sul telefonino per qualche istante, poi riprese a scrivere il messaggio da dove l’aveva interrotto. Avrebbero dovuto sapere, ma non avrebbero mai saputo. Lei non avrebbe mai osato dire agli interessati ciò che invece aveva il coraggio di scrivere solo come sfogo per se stessa. Fece un sospiro accorato e si fermò per un momento ad osservare le stelle oltre la finestra. Erano le medesime stelle che ora stava contemplando Uppert. Con un sospiro chinò di nuovo la testa sul piccolo schermo. Il fatto era che i tipi come Uppert Léotard non erano da meno degli Jacques.
L’aria innocente e indifesa era solo un trabocchetto per gonze. Erano uomini frustrati, Don Giovanni che godono nel vedere il desiderio nelle ragazze, le illudono, ma poi si fermano lì. Dominique sentì la gola tornare a gonfiarsi dolorosamente e qualcosa pungerle gli occhi dall’interno. Trattenne il respiro e cercò di deglutire, ma il boccone amaro non voleva saperne di andare giù. Certi uomini non ne avevano mai abbastanza, erano veri e propri vampiri. Uppert lo era di sicuro. Aveva tutto, e aveva voluto anche la bambola Dominique, un giocattolo in più. Due cose pungenti cominciarono a scendere dall’orlo delle ciglia verso le guance. Toc. Toc. Altre grosse gocce brucianti e salate caddero sul telefono.
La vita era davvero ingiusta, se permetteva l’esistenza di certi egoisti e di tanta gratuita cattiveria.
Gli uomini come Uppert Léotard erano solo preoccupati di proteggere come un tesoro le loro ansie. Dominique si asciugò gli occhi e guardò per un attimo fuori dalla finestra. Lei non aveva mai giocato con i sentimenti di qualcuno. Le persone non erano oggetti da usare e scartare quando non ci servono o non ci interessano più, e del resto lei non buttava via nemmeno gli oggetti. Già. Non buttava mai via niente, a parte se stessa.
Fuori, il nero della notte stava riempiendosi di versi strani. Si udiva raspare, poi uno squittio e infine ancora il bubolare del gufo. Chissà che stava facendo Lyssa. Non sentiva più nessun rumore dalla cucina, di certo dormiva. Riempì di nuovo una schermata piena di parole e sollevò il cellulare contro lo specchio della finestra aperta. Poi lo posò, si alzò e andò sul balconcino dalla ringhiera di ferro battuto; dava sul retro della casa verso le colline e una mezza luna stava spuntando da dietro il digradare dei dossi pennellando gli alberi di luce, incurante del fatto che lei avesse dentro un’oscurità densa come pece. Dentro di lei, l’alba non sarebbe più sorta, mai più. Cosa si nascondeva dietro ad artisti in piena crisi narcisistica come Uppert Léotard, se non la paura e l’intima consapevolezza di essere delle nullità e dei vigliacchi? Sospirò.
E si lasciò cadere di sotto.

Il merlo volò dal davanzale della cucina direttamente nel prato. Era l’alba di una bellissima giornata di sole e valeva la pena di vedere cosa succedeva nei dintorni. La sua attenzione fu catturata da un ammasso di pelle d’uovo bianca e di riccioli biondi nel prato, proprio sopra l’aiuola di calendule di Lyssa. Le formiche che ci si erano arrampicate sopra erano un’ottima occasione per fare uno spuntino. Il merlo si avvicinò e salì sopra a sua volta, zampettando gentilmente fino a raggiungerle. Poi cominciò a becchettare le piccole formiche. A quel punto l’ammasso si mosse e si voltò improvvisamente su un fianco e, nel farlo, quasi lo travolse. Il merlo rimase impigliato nelle pieghe della stoffa.

Lyssa si era svegliata e aveva cominciato a preparare frittelle e pane fresco per la colazione. Si diresse in corridoio e chiamò un paio di volte:
«Dominique! Dominique!» La voce riecheggiò nella tromba delle scale senza ottenere risposta. Sentì il gorgoglio del caffè e rientrò in cucina per spegnere il gas. Sorrise fra sé: «Come se la dorme!»
Quando Merlo entrò dalla finestrella della cucina, Lyssa notò che aveva un’aria strana, assai più arruffata del solito. Le sue piume, solitamente lucide e nere come la testa di un ballerino degli anni ‘20, erano tutte scompigliate. Sembrava stazzonato come fosse stato arrotato da un camion. Lo chiamò a sé con lo schiocco abituale e lo esaminò da vicino:
«Che ti succede? Un incontro del terzo tipo con un gatto…?» Il merlo sbatté le ali ancora visibilmente agitato e Lyssa gli offrì un pezzettino di frittella.
«Dài, aiutami a svegliare quella dormigliona di sopra, vieni con me» ma con sua sorpresa Merlo volò sulla mensola del camino, rifiutandosi di seguirla. «Uh? Non vieni?» fece Lyssa incredula. «Fai come vuoi.» Poi girò i tacchi e uscì nel corridoio. Salì rapida le scale e bussò alla porta della camera, chiamando ancora un paio di volte:
«Dominique, sei sveglia?» Schiuse piano la porta e mise dentro la testa. Ma dov’era andata? Non capiva. Non era in bagno perché non l’aveva sentita, ma non era neppure scesa. Dominique aveva bevuto parecchio, la sera prima. I suoi occhi saettarono per la stanza fino a fermarsi sul cellulare appoggiato sul comodino e connesso alla presa della luce.
Chissà se quel deficiente di regista l’aveva richiamata. Si sedette sul bordo del letto e vide che il telefono era fermo su una scheda internet. Guardò meglio e vide che erano tre, le schede aperte su facebook. Tre post sospesi, non ancora pubblicati sui rispettivi diari dei tre uomini di Dominique, il regista, l’intellettuale e l'ormai ex marito. Sarebbe bastato il minimo tocco del suo indice per sparare nell’etere quella bomba di siero della verità. Sarebbe stata una cosa da rendere pubblica. Peccato, Dominique non avrebbe mai avuto il coraggio di spedire quei messaggi per davvero.
Invece doveva assolutamente decidersi a fare piazza pulita di quei tipi lì nella sua vita. Lyssa non l’aveva mai vista tanto sconvolta come la sera prima, e come darle torto, due ben serviti in poche ore, oltre a tutto ciò che le aveva fatto passare nei mesi precedenti quell’Edward, quello pseudo-intellettuale da strapazzo. Tamburellò le dita nervose sul comodino. Sospirò. Lo sapeva che era sbagliato, Dominique l’avrebbe odiata per questo. Ma se non aveva il coraggio di darci un taglio, qualcun’altro doveva pur farlo. Ebbe un lampo di genio: doveva spedire quei messaggi per posta ordinaria, in modo di lasciare a Dominique la possibilità di negare di averli mai inviati. Una specie di via di fuga, un escamotage che diluiva la gravità di ciò stava per fare. Per giunta da pochi giorni spedire una raccomandata non era più impresa titanica. Il flusso turistico crescente aveva finalmente convito le autorità a istituire un ufficietto postale anche a Murs. Era una manna. Copincollò i messaggi e li inviò dal cellulare di Dominique a se stessa. Poi scese nello studiolo al pianterreno e stampò tre lettere, cui appose gli indirizzi estratti dalla rubrica di Dominique.
Dopo aver imbustato il tutto, Lyssa si sfilò gli zoccoli in legno e scivolò a cambiarsi. Prima di uscire, controllò in un istante il suo riflesso sulla porta a vetri e sorrise, non senza una punta di malinconia. Il rosso le stava così bene, da quanto tempo non indossava più quel bel cappello? Forse da mesi, o anche di più. L’ultima volta doveva essere stato in occasione di quella famosa passeggiata con il siciliano. Gran bel ragazzo. Era venuto a trovarla in bicicletta, fischiettando, con un berretto di traverso e una deliziosa camicia bianca che faceva risaltare la carnagione abbronzata. Era stato lui a insegnarle la ricetta per preparare il liquore alla liquirizia, che in seguito lei aveva perfezionato con un tocco segreto, trasformandolo in D.M., Delirium Mirabilis. Si erano infilati uno dietro l’altra nell’intrico dei boschi e avevano finito per stendersi e fare l’amore in un prato.
Lyssa si diresse rapida verso l’ufficio postale a bordo della sua R4 nera. Avrebbe spedito i post di Dominique secondo un piano che la sua amica non poteva neppure immaginare. Dopo di che, il resto della giornata sarebbe stato dedicato alle pratiche per il brevetto del suo favoloso liquore. Favoloso, proprio come Dominique. Sorrise di nuovo fra sé.

Intanto Francine Faget, figlia del proprietario dell’omonima caffetteria Faget della piazza attigua all'ufficio postale di Murs, effettuava la sua incursione mattutina alle poste, incursione che non mancava mai di organizzare da dieci giorni, da quando, cioè, Murs poteva fregiarsi di un servizio di spedizioni. Fece il suo ingresso con passo elastico, scollatissima nella magliettina color pastello, decisa a corroborare Gérard con un Pastis di cui Mathieu riusciva però sempre a divorare la metà. Ma la porta a vetri dell’ufficio dietro di lei non si richiuse, perché ad insinuarvisi all’ultimo momento fu Ariane Bassà. Bruna, procace e ingioiellata, la giovane cassiera della Boucherie Besnard, come ogni mattino, portava personalmente in posta la carne che acquistavano i due uomini, precisando sempre che l’aggiunta del bocconcino di filetto era per Gérard.
Giunta all’Ufficio Postale, Lyssa parcheggiò e si avviò verso l’ingresso ma, appena aperta la porticina a vetri, le sembrò di trovarsi davanti a un muro di folla. L’andito era piccolissimo, la parte riservata agli avventori non superava l’ampiezza di un tinello e c’erano almeno cinque persone stipate in piedi, mentre dietro il vetro del banco non si vedeva nessuno. Tre persone le conosceva: c’erano la barista, la cassiera della macelleria e la Mesnard. Di quest’ultima aveva individuato la presenza ancor prima di averla propriamente vista. L’odore di mosto che si portava dietro era inconfondibile, pungeva le narici. Inspirò. Sì, inequivocabilmente mosto. Madame Mesnard doveva averla preceduta di poco.
Lyssa individuò i capelli gonfi, rosso carota e dalle punte rivolte all’insù come i forconi di tanti piccoli diavoli. Si chiese perché mai il parrucchiere del paese si ostinasse a tingere i capelli con quell’assurdo color arancione, che peraltro anche Dominique trovava “tanto raffinato e primaverile”. Il rosso ciclamino o il rosso tiziano, il nero, quelli sì erano colori per una chioma a modo. Ma se glielo avesse detto, Dominique l’avrebbe certamente rimproverata accusandola di non avere gusto, come faceva del resto a proposito della lunghezza dei suoi capelli: «Un’indecenza, così lunghi oltre i quaranta, tesoro. Dovresti riconsiderare il taglio».
La signora color succo all'Ace era proprio l’ultima della coda e controllava la fila davanti con occhietti che scintillavano minacciosi, ondeggiando in equilibrio precario sulla punte dei piedi minuscoli. Lyssa cercò di non incrociarne lo sguardo, ma non poté evitarlo.
Cécile Mesnard le fece l’occhietto. «Certo che avere un ufficio postale è una cosa fantastica, eh!» esordì guardando tutt'intorno i presenti.
Lyssa si chiese come mai avesse quell’aria eccitata ma tenne per sé le sue riflessioni. Poi notò le le risatine che la giovane Bassà scambiava con la Faget, quest’ultima facendo tremare un vassoio con un bicchiere colmo. Una frase pronunciata a voce un poco più alta raggiunse l’orecchio di Lyssa: «Un’ottima idea» stava ripetendo ammiccante la Bassà . Doveva di certo trattarsi di qualcosa che aveva a che fare con degli uomini. Così lasciò cadere un casuale
«Chi ha preso servizio nell’ufficio? Qualcuno del posto?»
Altre risate, questa volta fra tutte quella sussiegosa della Mesnard:
«No, gente di fuori, pensavo che lo sapessi. Non ti si vede mai in paese!»
«Un signore di Marsiglia» - rispose cortesemente la Faget, e la Bassà, di rincalzo:
«E di Parigi!» E via con altre risatine.
La Mesnard strizzò l’occhio a Lyssa, con l’aria di stare per rivelarle una cosa cruciale:
«Sì, sì, ma quello di Parigi non è veramente un “addetto”…»
A Lyssa non interessavano i pettegolezzi e con un sorriso di circostanza diede loro le spalle, appoggiandosi alla mensola per compilare il modulo delle raccomandate celeri. Tenendo gli occhi bassi, cominciò a scrivere gli indirizzi pregustando le reazioni di quei tre disgraziati: i tondi e sporgenti occhi di Ed il tacchino, un imbecille arrogante che aveva sempre approfittato del brio e dell’ingenuità di Dominique; quel gaglioffo di Jacques “la verza”, senza sapore proprio come l’ortaggio, e Uppert il pisellino; quest'ultimo doveva pur avere un motivo per darsi sempre alla fuga all'ultimo momento e lei se n'era già fatta un'idea. Lyssa trattenne un sorriso. Con certi uomini Dominique si perdeva davvero in un bicchier d’acqua e, soprattutto, perdeva il contatto con la realtà. Mangiare tacchino e tristissime verdure lesse come se fosse perennemente a dieta, quando avrebbe potuto concedersi eccellenti manicaretti. A tempo debito le avrebbe rifatto il discorsetto. Con la coda dell’occhio Lyssa scorse che ora lo sportello era aperto e che era libero. Si avvicinò a occhi bassi mentre riponeva la penna nella borsetta e allungò automaticamente le tre buste e i moduli. Fece scivolare il tutto sul banco di marmo e disse:
«Raccomandate con posta prioritaria, grazie.»
Ma una voce la fece sussultare.
«Arriveranno dopodomani, signora.»
Aveva parlato l’inferno in persona, anzi: la profondità dello stomaco dell’inferno. Lyssa alzò sorpresa il viso: al di là del vetro c’era un uomo così alto che il suo bacino si staccava di una buona spanna al di sopra del profilo del banco. Notò dapprima i jeans sdruciti e senza cintura, poi la camicia celeste di ottimo Oxford e, infine, la grossa catena d’oro da rapper che faceva bella mostra tra i lembi della camicia sbottonata su un petto scuro grande come un aeroporto. Due enormi occhi bianchissimi, l’unica cosa che splendeva nell’oscurità confusa oltre il bancone, l’accolsero con altre parole:
«Sono Gérard, a sua disposizione.»
Lyssa sbattè le ciglia cercando le parole, quando da oltre il banco si aggiunse un’altra voce:
«Gérard, facci la grazia, contieni il tuo fascino tribale». C’era qualcun altro, di là, e dalla smorfia sghemba del diavolo nero, Lyssa capì che si trattava di qualcuno che la stava prendendo in giro. Nel medesimo istante vide con la coda dell’occhio la testa rossa e accotonata della Mesnard che si sporgeva alle sue spalle per sbirciare sul banco: «Ah ah, tre lettere a tre uomini, e non hanno aria di essere lettere commerciali…»
Lyssa trasecolò. Serrò la mascella, sgranò gli occhi, dilatò le narici, s’irrigidì e infine incassò il collo nelle spalle. Ma non reagì . Si limitò a rispondere rivolta verso Gérard:
«Dopo domani è perfetto, grazie». Pagò e allungò il collo per capire chi armeggiasse fra i pacchi. Da dietro una pila di risme di carta vide una figura muoversi con la rapidità di un folletto e improvvisamente, all’altezza dello stomaco del guerriero Masai comparve una faccia.
Sotto la faccia, un uomo che, seppure di statura normale, al cospetto al guerriero Masai sembrava lillipuziano. E la stava fissando con una insopportabile espressione sardonica. La bocca larga era tesa in un sorriso che attraversava il viso e uno sguardo luccicante e pungente ammiccava da sotto un ciuffo di capelli scuri come il bosco fitto. «Toh, un predatore» pensò.
«Mathieu, per servirla. Mi occupo personalmente della spedizione e distribuzione della posta nonché di questo modestissimo ufficio.»
Lyssa lo misurò senza dire nulla. Naso interessante. Inoltre aveva due conturbanti rime nasolabiali, tipiche degli uomini abituati al gioco rischioso.
«Non sarà fuori stagione, quella giacca a quadri?» rispose finalmente lei. Fece la sua classica espressione da gatto che si è mangiato il topo: rilasciò la palpebra inferiore degli occhi e sollevò un sorriso che non mostrava i denti. Infine girò i tacchi.
Uscì dall’ufficio perfettamente consapevole dello sguardo irriverente che quel Mathieu stava dedicando al suo posteriore e tornò a casa. Senza aver capito di che colore avesse gli occhi.

Capitolo 3
Un semidio

Una striscia di sole serpeggiava lungo il profilo della nuca di uno sconosciuto: lungo i muscoli del collo teso e poi della spalla ampia e rotonda. Lui era voltato di lato e teneva il viso piegato in avanti. Accennava un sorriso. Poi roteò il busto verso di lei e si chinò per baciarla. Fu allora che Dominique si svegliò e si accorse di un’ombra.
O meglio, di una grande ombra. Grande abbastanza per svegliarla dal suo sogno meraviglioso. Si grattò il naso e aprì un occhio. Si rendeva conto di essere coricata ma non capiva precisamente dove. Mise a fuoco la figura che si frapponeva fra lei e l’aurora: niente altro che la cara Lyssa. Una specie di eclisse umana. Provò a sollevare la testa e le sfuggì un mugolio di dolore.
«Perché mi guardi così?» gorgogliò, senza però degnare l’amica di uno sguardo e calamitata invece dalla fonte di un profumo irresistibile.
Un grande vassoio con tutto l’occorrente per un pranzetto al sacco, con quelle che sembravano frittelle ancora fumanti, troneggiava tra le mani di Lyssa.
«E tu perché hai usato la mia camicia da notte per dormire sulle mie calendule?»
Dominique spalancò finalmente gli occhi e si mise faticosamente a sedere.
«Le calendule…?» Guardandosi intorno notò il cuscino di fiori arancioni che la circondava: «Oh, caspita, ma dove sono…» chiese sbattendo le palpebre e fissando l’amica con aria confusa, come se potesse essere lei a spiegarglielo. Poi, man mano che vedeva delinearsi un’ombra di disapprovazione sul viso di Lyssa, nella testa prese lentamente a diradarsi la nebbia dei ricordi.
Non si sentiva affatto bene. Intorno era tutto un paradiso, ma qualcosa non quadrava. Lyssa continuava a fissarla, ma improvvisamente cambiò espressione.
«Oh non preoccuparti, tesoro, le calendule si piegano ma non si spezzano» Finalmente sorrise «Quale letto migliore, del resto, per la mia Dominique?»
Dominique si guardò attorno e d’un tratto si ricordò della telefonata di Jacques e di quella di Uppert. Sentì una fitta nello stomaco. Ciò che fino a un attimo prima era un confuso senso di disagio, salì verso il petto e la gola assumendo la forma di un’ondata di nausea e tremore. Cercò di non darlo a vedere.
«Forse sono ritornata sonnambula» rispose, evitando lo sguardo di Lyssa.
«No. Non lo sei mai stata.»
«Non lo so, Lyssa… Devo essermi alzata nel dormiveglia, magari per andare in bagno e avrò sbagliato porta. Forse ho inciampato…»
Lyssa la fissò per un istante sollevando un sopracciglio, si accucciò sul prato e posò il vassoio tra le calendule. Poi mise i pugni sui fianchi continuando a fissarla, quindi le porse un piatto già guarnito. La osservò indugiare per qualche istante, infine avventarsi sul cibo e divorare una frittella dopo l'altra.
Terminato il pasto, Lyssa insistette per risalire la collina insieme, e quando giunsero sulla sommità, si fermò e la prese per mano senza guardarla. Era rivolta all’orizzonte. Fece un ampio gesto con un braccio verso il cielo cobalto che si apriva immenso sul campo di lavanda e le disse cose che Dominique non si aspettava di udire.
«La vedi, tutta questa bellezza? Basta pochissimo e non resterebbe più nulla. Nel bene e nel male, nulla della tua vita attuale esisterebbe più dopo un atto estremo».
Dominique la fissò cercando di capire dove volesse andare a parare.
«Tu pensi di poter chiudere ogni forma di dolore e congedarti dall’universo con un gesto, ma non funziona così. Non puoi rispedire la vita al mittente con tanti saluti, come un vestito comprato online che non sta bene come ti aspettavi da catalogo. Siamo abituati a pensare che tutto ci sia dovuto, anche la vita, e che la morte non sia che una tragica casualità. Ma è il contrario. La morte è la regola. La vita è dovuta al caso. Ecco perché non puoi andartene, senza prima avere sistemato tutto ciò che hai in sospeso. Perché non avrai altre occasioni per farlo.» Lyssa parlava senza staccare gli occhi dal cielo blu, apparentemente assorbita dallo spettacolo del panorama. I raggi del sole sulla pelle e sui capelli la facevano somigliare a un soggetto evanescente di Monet. Dominique la osservò meglio: in realtà, lo sguardo era vigile e Lissa sembrava del tutto presente a se stessa. Anzi, fremeva, e tutto quel riverbero usciva dalla sua pelle.
Così lucida e vibrante, Dominique non l’aveva mai vista.
«Fossi mia figlia ti schiaffeggerei per bene, continuò, ma purtroppo sono solo tua amica.» Si voltò finalmente a guardarla. «Però ti conosco meglio di chiunque altro. E so chi sei veramente. Io ricordo Dominique la favolosa immersa in fondo all’Oceano, in luoghi dove nessuno ha il coraggio di andare, e poi su, a pelo d’acqua, fuori solo con gli occhi che ridevano pieni di entusiasmo per i misteri che avevi visto solo tu. Sembravi il sole che sorge, anzi, sembravi Afrodite. Tu forse te ne sei dimenticata, ma io ricordo bene la tua voglia di andare, viaggiare, scoprire la natura per poi raccontare, trasformando le cose, anche le più semplici, in una favola stupenda per chi, di tutto questo, non aveva mai visto nulla. Eri tu a suggerirmi cosa raccontare nelle favole, quando eravamo piccole. Tu hai sempre cercato la Bellezza, e la Bellezza non ti ha ancora lasciato. Non ti ha mai lasciato.»
Dominique stava per obiettare, ma Lyssa non gliene diede il tempo.
«Personalmente trovo che la tua sia una scelta idiota. Uno spreco. Devi prima mettere ordine in ciò che senti. Devi analizzare ciò che ti hanno fatto passare e ciò che hai intenzione di fare».
Era davvero troppo. Ma come? Lei aveva tentato di farla finita e… quella… le stava suggerendo di rimasticare tutta l’amarezza della sua vita? Bell’amica. Non ci pensava nemmeno.
Lyssa distese il braccio e Dominique seguì con lo sguardo il movimento con cui l’amica frustò l’aria. Fu un gesto di noncuranza, ma la mano sembrò un’ala e il caso volle che, per uno scherzo del vento, una ciocca nera di Lyssa si inanellasse con il medesimo identico movimento. «Rimetti a posto le cose e riporta equilibrio nella tua vita. Non perdere l’occasione di riflettere: una cosa che non hai mai avuto il coraggio di fare». In quell’istante Merlo arrivò in volo sfiorando il viso di Lyssa, costringendola a interrompersi. Dominique notò che le ali sembravano dita. «Sono stata alle Poste. Ho spedito i tuoi messaggi.» disse poi, fredda.
«In che senso?» chiese Dominique ancora un po’ stordita.
«Ho inviato i tuoi post non pubblicati su facebook per conoscenza a Tacchino, Verza e Mini-kiki. Le riceveranno dopodomani al massimo».
«Di cosa stai parlando?» chiese Dominique con un fremito nella voce. Scosse la testa, come per liberarsi di qualcosa che poteva aver interferito con l’udito. Non doveva aver capito bene, e prese a seguire l’amica tentando di intercettarne lo sguardo. Lyssa però saettava giù per il prato e raccoglieva pannocchie di gigaro rosso sangue, proteggendo la mano con l’orlo della gonna. Era difficile seguirla, in tutti i sensi. Chissà che le era preso.
«Ma dei messaggi che hai scritto questa notte! Li ho spediti per posta, cara» disse infine prendendo fiato per lo sforzo di staccare una pannocchia dallo stelo grosso come un dito.
«Li hai spedite dove?»
«Ai rispettivi interessati, naturalmente. A chi, se no?»
Dominique finalmente capì. Sgranò gli occhi, allungò il collo verso di lei e sbiancò, si accasciò sull’erba, poi, cominciò a strepitare.
«Devi essere impazzita! Come ti permetti!» Dominique raggiunse un acuto incline a rompersi in un singulto. Continuò quando trovò la forza per dominare il pianto «Sei una stronza impicciona!» urlò con tutto il fiato che aveva in gola, e finalmente scoppiò a piangere. Ma era inutile. Lyssa nemmeno rispose, continuando a riunire le pannocchie in un unico mazzo. Gli occhi velati di Dominique cominciarono a versare lacrime e, quando finalmente queste cessarono disse, con un filo di voce: «Non ti rendi conto di cosa hai fatto! Là sopra ho scritto cose che loro non dovevano sapere, cose che non volevo che sapessero!»
«Magari è questo il problema» osservò Lyssa con voce morbida, riprendendo il cammino verso casa, mentre Dominique sentì su di sé tutta la sfida implicita nelle palpebre socchiuse dell’amica. «Ma perché ti danni così?» diceva intanto «Hai sistemato le cose. Dovevano sapere cosa pensi di loro. Hai chiuso definitivamente con il passato e sei libera di ricominciare la tua vita. Da capo! Con tutti i soldi che avrai, potrai darti alla pazza gioia, in piena libertà, senza vincoli e legami, badando a scegliere meglio, questa volta!»
«No! No e no!» Dominique si fermò e puntò i piedi. Lyssa non voleva capire. «Non morirò dando di me l’immagine di una donna volgare e rancorosa. Voglio essere rimpianta, non odiata. Si vede che non mi capisci più, Lyssa. Sono adulta ora, ho una dignità. Non era questo che volevo!» Ma dovette interrompersi sotto una nuova puntura di pianto. Intanto Lyssa aveva cominciato a parlare con quella voce ipnotica da strega che sapeva rendere tanto convincente.
«Tu non lo sai, quello che vuoi. Scommetto che ti sei dimenticata che dopo l’ultimo fallimento, Jacques ha intestato “a te” la ditta per poterla riaprire, mia cara» Le batté dolcemente l’indice in mezzo alla fronte.
Ma Dominique le voltò bruscamente le spalle e si diresse a passo di marcia verso il maggiolone bianco parcheggiato davanti a casa, urlando: «Non dovevi farlo! Non dovevi!» senza ascoltare più le parole dell'amica che la inseguiva.
«Ormai è chiuso! Ormai l’ufficio postale è chiuso»
Salì a bordo per precipitarsi all’Ufficio Postale ma fece pochi metri poi inchiodò, abbassò il finestrino e si sporse, voltandosi indietro verso Lyssa. «Cos’hai detto?»
«Chiudono alle 3 e mezza del pomeriggio. L’ho letto stamattina sulla porta. E poi sei in camicia da notte!»
Dominique. Riportò con mestizia il maggiolone al parcheggio sul piazzale davanti casa. L’indomani alle 8,30 in punto, tuttavia, nel suo abitino giallo, schiena nuda con fiocchetto neropece, partì a razzo sgommando sulla ghiaia del vialetto.

Anche quel mattino, Madame Mesnard aveva pensato bene di fare una capatina all'Ufficio Postale e, in quel momento, era tutta presa a corteggiare Gérard e a ringalluzzirsi per i complimenti di Mathieu, che le ronzava intorno sornione, stuzzicandola per la sua vivacità di spirito e per l’acconciatura birichina. Cécile rideva in solluchero.
«Oh ma cosa dice? Mascalzone» gorgogliava con voce da bimba e portandosi le mani alla bocca aggiunse: «Dovrò decidermi, un giorno di questi, a chiedere un sovrappiù di pigione, dal momento che lei si è trasferito nell’abitazione di Gérard.»
«Diavolessa!» mugolò Mathieu tirando il sorriso di lato e mordendosi un labbro.
Francine Faget del caffè Faget sollevò le sopracciglia e sgranò gli occhi; infine corrugò la fronte con espressione di rimprovero:
«Non sopporto di vedere Gérard molestato dalla Mesnard. - bisbigliò ad Ariane al suo fianco - A suo modo è una vecchia! Dovrebbe vergognarsi di dare il tormento in questo modo a un ragazzo.»
Ariane Bassà, la cassiera della macelleria, arricciò impercettibilmente il naso allargando le narici e squadrò Francine dalla testa ai piedi: «Sei sicura che a Gérard faccia bene bere il pastis che gli porti tutti giorni?»
A Dominique, intanto, non era stato difficile trovare il suo obbiettivo. Scese dall’auto e si lanciò di corsa a testa bassa verso l’ingresso. Oltrepassò la porta e solo allora sollevò il viso per avere una panoramica della situazione. Gettò un paio di occhiate intorno muovendo la testa come un faro e alla fine individuò ciò che cercava. Al di qua della bilancia e in attesa di essere caricato e spedito, c’era un sacco di iuta ancora aperto, zeppo di corrispondenza. Vi si diresse, ne allargò l’apertura e cominciò a rovistare, incurante degli sguardi di tre donne che la fissavano come se fosse la Vergine di Lourdes.
Da oltre il bancone, una voce allegra e spavalda l’apostrofò severamente:
«Signora! Ma che sta facendo?»
«Le buste! Devo trovarle!» rispose Dominique agitata e china sul sacco, senza voltarsi e senza smettere di cercare. Alle sue spalle udì levarsi un mormorio di protesta e un trapestio di passi che si avvicinavano.
Rovistando freneticamente, Dominique cominciò a tirare fuori le buste dal sacco, gettandole tutto intorno sul pavimento a mano a mano che le scartava.
Fu allora che, poco distante dall’orecchio destro, avvertì un soffio caldo:
«Non si può fare quello che sta facendo lei, signora.»
Per una frazione di secondo, Dominique valutò se l’astinenza forzata dagli ansiolitici di cui purtroppo Lyssa non era provvista, le stesse facendo sentire “le voci”. Ma si trattò solo di un brevissimo attimo, perché la visione periferica e, soprattutto, la sua pelle, le segnalarono la presenza, quasi accanto a lei, di una grande ombra scura da cui proveniva calore. Dominique si fermò all’istante. Non alzò subito gli occhi per controllare, invece ascoltò una specie di fremito involontario che le aveva attraversato il corpo nel momento in cui aveva udito la voce dello sprofondo. Quale cassa toracica poteva emettere un suono così bello?
«È proibito,» continuò lui gentilmente.
Dominique alzò finalmente gli occhi e «Oh,» mormorò «davvero?»
«Davvero, madame. Che cosa sta cercando?» disse la voce che pareva uscita dal ventre di qualcosa foderato di velluto.
Dominique si sollevò fissandolo, sentendosi salire il nodo in gola. Aveva davanti una scultura scolpita nell’ebano. Un metro e novanta di lucido e durissimo legno tornito di muscoli eleganti e perfetti. I ricci neri rasati quasi a zero e gli occhi acuti, grandi e allungati. Dentro, iridi piccole e nerissime come perle nere. Si ergeva lì, davanti a lei, possente e flessuoso, come solo alle divinità è consentito di fare.

Edited by Mollie Miles - 2/7/2014, 22:57
 
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margaret gaiottina
view post Posted on 5/10/2013, 17:33




Scusa: chi sei?
 
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folgorata
view post Posted on 5/10/2013, 19:07




Evviva Barbarabsi ovvero Imogen Barnabas!!! Gaia poi ti spiego tutto adesso vediamo di dare un titolo all'opera e metterlo nella sezione giusta che la ragazza è una neofita dei forum.

Sono fin commossa da quanto sei brava ma arrivata qui:
"Fissando la strada davanti a sé, attenta a non perdere l’indicazione dello svincolo che l’avrebbe portata più vicina a Fawn, Dominique ripensò ai primi anni con Jacques." ho cominciato a stufarmi e ho sospeso la lettura.
E questo per via di un errore di struttura: quando menzioni fuga di mezzanotte devi decrivere la scena raccapricciante. e dire che nonostante lei sapesse come va a finire ogni volta quella scena riusciva a farle ribollire il sangue di rabbia. Inotre questa scena va messa in cima a tutto. È un'anticipazione.

Infine riguarda la trama: Fawn era previsto come essere un attore vedi se il furto funziona anche se fa il musicista.

Comunque veramente veramente brava!

Ricomincio a leggere anzi rileggo daccapo quando hai fatto la correzione richiesta.
 
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Goldrose
view post Posted on 5/10/2013, 19:54




Ciao Barbara... Ho letto metà: davvero acchiappante.

Due cose, a mio avviso: troppi BMW, troppi occhi blu, azzurri, turchesi, troppi Fawn.

E poi ho un dubbio. Se non sbaglio negli autogril la benzina si va a pagarla dopo averla fatta...

Torno a leggere l'altra metà...
Comunque mi piace :D
 
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barbarabsi
view post Posted on 5/10/2013, 20:21




ciao, grazie dei vostri consigli... sì devo sicuramente scriverlo meglio con meno ripetizioni.
(imogen però mi sembra un nome da supposta...)
ho un problema con fuga di mezzanotte... non posso descrivere la scena raccapricciante perchè non l'ho mai vista... la guardo e poi lo descrivo... scusate ma non sono tanto capace di usare questo strumento, portate pazienza, cercherò di fare rapidamente meglio... a presto b.

p.s. sìsì, anche come musicista funziona la trama...
 
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folgorata
view post Posted on 5/10/2013, 21:03




Bestia! Imogen è un nome schackespeariano! Tratto da... "una notte di mezza estate"? Forse. Nonho trovato ripetizioni. Te la descrivo io:
Stanza quadrata tipo vecchia aula scolastica tavolaccio al centro della stanza. Inquadratura tipo cristo di mantegna di prigioniero diesteso a pancia in giù e manganellate poderose in primo piano sulle piante dei piedi. Crea.

Qua vedi la scena anche se con l'audio sbagliato:
Video
 
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barbarabsi
view post Posted on 5/10/2013, 21:14




... estasiata...
ho fatto una ricerca e l'ho trovata... Imogen è un personaggio in effetti... in gaelico, significa vergine. e porta con sè la spada... brividi senza fine. vado a creare. notte a tutte e grazie ancora... che meraviglia di situazione...
 
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folgorata
view post Posted on 5/10/2013, 22:08




Barbara vai a presentarti e a scrivere due righe su di te qui:
https://docks.forumcommunity.net/?t=38190353&st=585#lastpost
Non devi creare un topic apposito basta che aggiungi una minipresentazione come commento.
 
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paperinic
view post Posted on 6/10/2013, 17:32




Un suggerimento piccolo piccolo, invece di "..ma non riesco proprio a mettermelo in testa ..", direi "ma non riesco a farmelo entrare in testa".
 
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folgorata
view post Posted on 6/10/2013, 17:44




Giusto Emerson :-)
 
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barbarabsi
view post Posted on 6/10/2013, 19:41




ecco, mi sono presentata là e ho appurato che prima si fa benzina e poi si paga... :D quindi devo spostare questa cosa...
che faccio con gli azzurri e i blu? ne tolgo qualcuno? inoltre devo specificare anche che non è nuoto ma immersione subacquea, perchè mi dicono che con il nuoto non ci si ferma a osservare i fondali... ora riprendo il tutto... :)
 
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AnnaReed
view post Posted on 6/10/2013, 22:29




Davvero incalzante e coinvolgente, sei riuscita a rendere la tua protagonista particolarissima e interessante.

L'unica cosa che non mi ha entusiasmato è l'utilizzo di "turchesi" al posto di occhi, qui in particolare: "E gli piantò di nuovo addosso i turchesi".
Magari è solo una questione di gusto personale :)
 
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folgorata
view post Posted on 6/10/2013, 23:22




No Barbara non spostare assolutamente lascia che lei va prima alla cassa per farsi autorizzare l'erogatore. Si va prima in cassa, poi si ripassa a pagare.
 
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margaret gaiottina
view post Posted on 14/10/2013, 21:24




I turchesi secondo me ci stanno bene, non toglierli:-)
E' molto interessante, poveretta sta tipa, lei cojona gli uomini e gli uomini cojonano lei (scusa il francesismo ma è la prima cosa che mi è venuta in mente).
Tutto molto vero e autentico e bella proprietà di linguaggio, molto sciolta. Bello, secondo me, avanti tutta!
 
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alices
view post Posted on 14/10/2013, 21:38




Ammetto, ho iniziato a leggere le prime righe per curiosità, e poi non ho potuto smettere. Vedevo la scena, quasi sentivo le musiche in sottofondo. Complimenti davvero. Scritto in maniera frizzante e scorrevole :) brava!
 
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207 replies since 5/10/2013, 15:52   2768 views
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