DOCkS della Bloody Roses Secret Society

La fantasia dello scarafaggio, di EDWARD PUNCH

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view post Posted on 26/1/2012, 23:30





«Lo scarafaggio si nasconde negli angoli bui di luoghi familiari, approfitta delle cose dimenticate, delle briciole, gira nei luoghi sporchi della casa.»
«Sfrutta la sporcizia…»



Londra. Morti inspiegabili sconvolgono il Regno Unito e l’Europa. Bambine angelo vestite di bianco si schiantano al suolo dall’alto dei ponti e dei palazzi.

Incubo dei genitori conservatori britannici, l’assistente sociale Nor Temple, bellissima e istrionica, è decisa a risolvere l’enigma e a stanare “lo scarafaggio”. La responsabile Temple, trascinata da un intuito senza briglie, solca le fantasie livide dell'infanzia inglese, vittoriane e inquietanti, affiancata in questo e trattenuta dal vice ispettore capo, John Carver detective dalla logica spietata e parole affilate come coltelli.

Insofferente all’ordine e alla gerarchia, vero marine in tacco dodici, Temple si trova di fronte a una doppia sfida: fare squadra con l’ispettore Carver, arrogante e misogino, e fermare la lunga teoria di giovani vittime..

La Fantasia dello Scarafaggio
di Edward Punch



Capitolo 1

La bambina entrò nella stanza. Tutto era di legno chiaro, come in una baita. Il sole entrava dorato dalle finestre. Una persona era seduta di spalle.
«Entra, siediti, non avere paura», disse una voce cordiale e suadente. Sulle mensole c’erano tanti pupazzetti ben allineati. Nanetti e gnomi per lo più, ma non solo. E sul legno rovinato del tavolo brillavano alcuni bisturi.


Una ragazzina era stata trovata senza testa. L’Observer ovviamente non pubblicava la fotografia del corpo. Ma l’immagine di un collo ridotto a moncherino sfilacciato si compose nell’immaginazione di Temple. Un altro angelo caduto. Per sapere quanti erano, ormai, sarebbe stato necessario fare i conti. Richiuse il giornale e lo lanciò sul tavolo. Il telefono non smetteva di suonare. Si alzò per raggiungerlo ma scattò la segreteria.
La voce squillante di Alene cominciò a parlare: «Nor, c’è il giudice Williams che ti aspetta alle cinque del pomeriggio per una perizia, per un caso di percosse. Qua al Royal in traumatologia.»
Le dita laccate di Elenore Temple, responsabile dei servizi del Social Care del distretto di Camden, si arrestarono prima di pigiare sul pulsante per rispondere alla sua assistente. L’appuntamento era per le cinque del pomeriggio e le lancette segnavano appena le undici del mattino. C’era tutto il tempo del mondo, anche se aveva poltrito. Si grattò la schiena sotto il giubbotto della tuta. Quella notte era rientrata alle quattro, dopo la lunga ricerca di un minore tossicodipendente. Ma non si era coricata prima delle cinque. Si era fatta una doccia e aveva impiegato un’ora ad asciugare i capelli. Li avrebbe tagliati se non fossero stati utilissimi sul lavoro. La facevano sembrare innocua. Li raccolse e fermò la crocchia bionda con una penna biro. Ora era intorpidita e quel martellamento su una ragazzina morta già da quindici giorni le dava la nausea. Giornataccia infame.
Elenore, meglio conosciuta come “Nor”, tornò a sedersi al tavolo di cucina e sollevò le gambe appoggiandole sul ripiano. Allungò a Sinatra, un pezzetto di “formaggio con i vermi”. Il bloodhound di due anni fece sparire il boccone con entusiasmo e sparò saliva sul linoleum. Se ne mise in bocca un pezzo anche lei e lo mandò giù con una sorsata di Guinness.
Fissò il giornale sul tavolo. Era una tragedia che aveva coinvolto delle ragazzine adolescenti e lei si occupava sopratutto di giovani. Non poteva far finta di niente. Le toccava immergersi in quell’orrore.
Riprese in mano l’Observer e ritornò all’articolo dedicato a Cheryl Wilson. Nel cadere da un silos per auto a Coventry, la testa era stata tranciata dal profilo affilato di una gronda. Il corpo, in sottoveste bianca, era stato trovato, martoriato dalla caduta, nel piazzale sottostante, la testa qualche metro più distante in una palla di capelli biondi.
Nor chiuse gli occhi, la vedeva. Sicuramente i capelli le si erano avvolti attorno a causa del rotolare, prima in aria e poi sull’asfalto. Una tragedia nella tragedia. Si impose di sollevare le palpebre e di tornare a leggere.
Di fianco alla fotografia di Cheryl c’era quella della vittima precedente, quasi identica. Quasi stessa età, bionda, occhi celesti. Evie era più magra e smunta di Cheryl. Il cadavere di Evie era stato trovato a trentasei ore dal decesso, il venti ottobre, due settimane prima, nel locale caldaia del caseggiato di una compagna di scuola. Era stato l’odore di morte a farlo scoprire. Nessuno si era messo in cerca della bambina. Il giornalista concludeva bollando l’episodio come emblematico della decadenza sociale.
Smise di mangiare, si sentì invadere dall’odore dolciastro tipico dei corpi in decomposizione. Le sembrava di essere lì, in quello scantinato. Le percezioni le arrivavano a volte come qualcosa di profondo e la coinvolgevano completamente.
Sospirò, fissandosi le ginocchia sformate della tuta da ginnastica. Premette il tasto del telecomando. La voce inconfondibile della BBC parlava a rotta di collo: «Una nazione sotto shock. Bambine appena adolescenti continuano a porre fine alla propria vita. Chi gettandosi dalla finestra, chi ingoiando sonniferi trovati in casa...» Cambiò canale: «Di fronte alle morti suicide di ragazzine tra i tredici e i quindici anni in svariati Paesi, l’allarme si va diffondendo in Europa. Oltre il Regno Unito, la Danimarca, la Germania…»
Tutte le televisioni mandavano in onda “gli angeli caduti”, bambine bionde vestite di bianco piovevano dai davanzali di mezzo continente.
Spense la Tv e rimise in frigorifero il formaggio con i vermi. Glielo mandava mr. Cubeddu dell’Interpool dall’Italia. Un tipo simpatico. Le piaceva lui ma soprattutto il formaggio.
Cominciò a sgomberare il tavolo e a riporre i piatti nel lavello. Nel ripiegare il quotidiano le cadde l’occhio sulla foto di un angelo di cera. Sotto, un titolo annunciava che era sorta una polemica sugli angeli che Carroll omaggiava ai clienti nel periodo di Natale. Una psicosi collettiva. Appena il nome Carroll le si depositò nel cervello inviando connessioni alle sinapsi più remote della materia grigia, Temple si colpì la fronte e un «merda» pronunciato a mezza bocca le svuotò i polmoni. Imprecando, dribblò Sinatra e sfrecciò in camera. In cinque minuti ne riemerse indossando un tailleur giallo baby e decoltè in tinta. Sbattè la porta di casa sul muso del cane e si mise a correre sull’asfalto umido per quanto glielo concedessero i tacchi alti. Intanto infilava le maniche del soprabito di cammello e si avvolgeva una pashimina intorno al collo. Per fortuna non pioveva. C’era solo quella nebbia di gocce minuscole. Pungeva la faccia ma Melanie era solamente a due isolati. L’appuntamento era per le dieci e trenta. Un ritardo orribile. Calzò la tracolla della borsa oltre la testa e puntò diritta a un comprensorio di villette in mattoncini. Sicuramente Melanie sarebbe stata vestita di tutto punto per il giro prenatalizio con la zia. Merda. “Vestita di tutto punto”. Era anche Halloween. Ci avrebbero messo un secolo a raggiungere i Grandi Magazzini sulla Hans Crescent. Era una vera fortuna che le fosse venuto in mente Carroll. Provvidenziale addirittura.
Svoltò in una traversa. Vietare la circolazione delle candeline a forma di angioletto dei Magazzini Carroll! Era assurdo. Tuttavia erano angeli, e tutti bianchi. Solo vederli o sentirli nominare faceva venire i brividi. Non c’era poi troppo da meravigliarsi che la tradizione centenaria dei Carroll venisse considerata lugubre in quella situazione.
Nel pigiare il campanello della sorella Clementine, Nor rifletté che erano solamente candele dopotutto. Non si potevano mettere al bando gli angeli. Tutta quella polemica era eccessiva. Il pensiero ebbe però vita breve perché la porta si schiuse.
Davanti a lei, Melanie Cook, quattordici anni, figlia di Clementine e di David, sorrideva pienamente soddisfatta del proprio travestimento. Il giubbotto era coperto da una camicia da notte candida evidentemente della madre. La faccia era infarinata come quella di un fantasma. Gli occhi erano sottolineati da segni viola d’ombretto effetto occhiaia. Sul collo, un segno orizzontale rosso con piccole linee verticali segnalava la riuscita ricucitura della testa del cadavere. Ma i capelli erano naturali: funicelle dritte e bionde come tutti in famiglia Temple. E come tutte le bambine suicide. L’accostamento fu immediato, Melanie era vestita da “angelo caduto”.
L’improvvisa acquisizione di quel semplice dato di fatto lasciò Temple senza parole. Ma durò solo un istante perché l’urlo che le uscì di bocca echeggiò in tutta la casa: «Sei impazzita?»
Chigwell, Knightsbridge, Belsize Park: fu un’eternità anche in metrò. Due ore dopo, Temple e la nipote si sedettero da Alice’s, il magico fast food dei Grandi Magazzini. Melanie era ancora immusonita perché Temple le aveva fatto togliere il travestimento da “angelo caduto”.
Temple distolse lo sguardo dalla ragazzina e lo fece vagare nel ristorante. Anche lì, la sala era costellata di mostri pallidi. C’erano decine di bambine bionde con camicioni immacolati e finte occhiaie viola. Del resto anche in metrò e nelle strade era lo stesso pullulare candido di angeli gotici. Un incubo.
Studiò il curioso attrezzo su cui avevano trovato posto. Era una specie di fungo e le sedie erano bruchi piegati ad angolo. Il ripiano del “fungo” era ancora cosparso di briciole lasciate dagli avventori precedenti. Non ci si poteva appoggiare.
«Forza Manny, rifletti. Non ci si può ispirare alle tragedie vere per il costume di Halloween. Pensa ai genitori di quelle bambine.»
Per tutta risposta Malanie sollevò le palpebre inferiori e le scoccò una vera occhiata d’odio.
Arrivò una cameriera vestita da Fata Morgana. Temple riconsegnò il menù indicando insalata di cipolle ma pensando al fagiano custodito in frigo. Lo aveva spennato, frollato scrupolosamente, cotto in arrosto segreto e il petto che ne era rimasto lo aveva conservato freddo in uno specchio di gelatina tartufata. Si trattava di tener duro per qualche ora.
«Ecco vedi, sono proprio iellata», Melanie aveva fatto finalmente udire la voce.
Temple socchiuse gli occhi. Poi avvertì lo scricchiolio dei propri stessi denti: «Ancora con questa storia del costume?» Aveva creduto di parlare con leggerezza ma ciò che le era uscito di bocca era una specie di sibilo cupo.
Due occhi celesti si sollevarono spalancandosi: «No. È solo che non posso più partecipare alla festa», disse Melanie indicando il pannello a tutta parete.
Temple girò lo sguardo al pannello del “Natale da Alice’s”.
«Sì, che puoi partecipare.»
«Ma non al premio, guarda.» Il dito indicava la grande scritta circondata di stelline: “Sei tu l’angioletto di Natale?”. Temple lesse l’annuncio. Sarebbe stata premiata la miglior faccia d’angelo. La partecipazione al premio di Alice’s era effettivamente consentita ai minori di anni tredici. Temple notò che c’era un piccola calca di ragazzini. Sotto la freccia nel pannello si dipanava infatti un’illustrazione a tutta parete. Raffigurava angioletti che volavano attorno a un albero di Natale. In corrispondenza delle facce degli angeli però c’erano solo buchi. In quell’istante vide un paio di bambini incastrare il viso in quella apertura e, subito dopo, una luce bianca attraversò il locale. Voltò lo sguardo e lo sollevò seguendo la direzione del flash. Sul pilastro c’era un obbiettivo con lampada per lo scatto. Aveva appena immortalato un aspirante piccolo angelo grassoccio e stupefatto. Era vero, Melanie non avrebbe potuto partecipare ma era quantomeno dubbio che si trattasse di una sfortuna.
Il crampo alla gamba si fece sentire di nuovo. Angeli, ancora. Perché disporre solo di una stupida borsetta invece di un mitra?
Sbuffò e guardò l’ora. Erano quasi le due del pomeriggio. Doveva ancora dirottare il desiderio di Natale di Melanie su una macchina fotografica quasi reflex. Poi finalmente si sarebbero dirette all’Hapstead dove Clementine sarebbe passata a raccogliere la figlia.
Uscirono dal ristorante e si inoltrarono tra gli espositori dei Grandi Magazzini tra enormi lampadari di cristallo e piccoli scheletri coperti di strass. Dal soffitto pendevano angeli bianchi con le facce di bambini di tutte le razze.
Temple annunciò al piccolo mostro che le avrebbe regalato una fotocamerà reflex. «Entry level, però – sogghignò -. La patologia forense, sai dove fanno le autopsie ai cadaveri, è proprio nel palazzo dell’ospedale dove ho il mio ufficio provvisorio. Ho visto che usano quella e mi hanno detto che costa poco», e le strizzò l’occhio. Di certo avere una macchina fotografica specializzata in cadaveri avrebbe soddisfatto il mostro e avrebbe riposizionato Temple tra le cose eccitanti che possono capitare a una nipote. «Oh, ma...aspettami un secondo.» Nor si avvicinò al banco dei libri.
«Tornata - disse dopo pochi minuti -. Questo è un pensierino per oggi, però è una sorpresa, aprilo quando saremo in ufficio. Con calma», e porse alla nipote sorridendo un pacchetto col fiocco giallo.
Manny fece segno di sì con la testa e se lo infilò nello zainetto.
Fecero ancora un giro e finalmente Melanie si convinse che era ora di andare. C’era una calca pazzesca anche all’uscita dei Grandi Magazzini. Dovettero dare di gomito per imbucarsi nel varco schermato dal getto di aria calda ma alle tre si ritrovarono finalmente nei gas umidi di Hans Crescent. Temple tirò un sospiro di sollievo. La metropolitana distava pochi metri. Mezz’ora e sarebbe stata seduta alla scrivania del proprio ufficio presso il Royal Free Hospital.
Proprio in quell’istante un nuovo crampo al polpaccio le bloccò il passo, togliendole il fiato. In una frazione di secondo, Temple attirò Melanie contro il proprio fianco coprendole gli occhi con la mano.
Distesa sul marciapiede, in diagonale, c’era una bambina con gli occhi sbarrati nel vuoto. Il vestito era bianco e i capelli erano biondi.
2.
Il corpo giaceva disteso sull’asfalto come crocifisso. La testa e i capelli annegavano in una pozza rosso cupo. La labbra erano livide ma era difficile stabilire se per colpa del trucco. A terra, inerte, c’era una delle tante ragazzine che in occasione di Halloween si erano vestite da angelo caduto. Temple contrasse i muscoli per bloccare la nipote. La stringeva a sè serrandole gli occhi con la mano. La nipote si divincolava protestando. Non aveva importanza, non doveva guardare. Temple tuttavia non riuscì a trovare la determinazione per spostarsi dall’area antistante l’uscita dei Grandi Magazzini Carroll. Ne era riemersa in tutta fretta pensando a Clementine che sarebbe passata a prendere la figlia al Royal Free. Ora si ritrovava a fissare impietrita quel corpo a terra. Sembrava il fotogramma di un cattivo film horror. Dopo tanto parlare di angeli caduti, era terribile quanto irreale. Lentamente il sangue riprese a circolarle nelle vene e gli occhi di Nor cercarono nel contesto la conferma che non si trattasse di un’allucinazione. Solo allora comparvero nel quadro visivo le persone assiepate. Nell’eco di un clacson e nella puzza dei gas di scarico, un muro di facce occupava il marciapiede e intralciava parte della carreggiata. Descriveva un semicerchio di cui il corpo della ragazzina era il centro perfetto. Una signora anziana si copriva il volto con le mani. Un’altra le teneva giunte davanti al viso in posizione di preghiera. Alcuni ragazzini spiavano dal retro di un furgone parcheggiato. Un agente sopraggiungeva veloce. L’inimmaginabile era successo davvero ed era accaduto davanti agli occhi di Temple.
Si voltò di scatto verso il sottopasso della tube. Si mosse rapidamente. Voleva tirarsi dietro Melanie prima che riuscisse a guardare. Ma l’eco di una voce la rallentò.
«Forza in piedi!»
Prima di appoggiare il piede sulla scala mobile, Temple si fermò. Si voltò nuovamente verso la scena.
L’agente si era portato vicino al corpo della ragazzina e ruotava uno sfollagente. Temple battè le palpebre un paio di volte. Pareva che la morta si muovesse. Che fosse scossa dalle convulsioni. Era del tutto surreale. Impossibile da credere.
La morta scoppiò a ridere e si mise in piedi scappando. I capelli dietro la testa erano impiastricciati di quel liquido rosso che Temple aveva pensato fosse sangue. Si dirigeva al furgone. Abbracciava i ragazzini che erano nascosti là dietro. Si battevano reciprocamente i palmi delle mani. Additavano la gente sghignazzando. Era tutta una finzione. Era uno scherzo. Era Halloween.
Quando finalmente l’aria residua le uscì dai polmoni, Temple registrò che un essere urlante si agitava sotto la presa del suo braccio.

Un paio d’ore dopo, nell’ufficio al Royal Free Hospital, Clementine era in ritardo. Temple spostò una pila di documenti sulla scrivania sbattendoli rumorosamente. Mancava mezz’ora all’appuntamento col Giudice. Melanie tuttavia non era stata un problema. Era seduta vicino alla porta e aveva la testa china sul regalo che Temple le aveva acquistato ai Grandi Magazzini. Era completamente assorbita nella lettura di Le gioie del sesso di Alex Comfort. Il volume era illustrato ed era molto esplicito sulla vita sessuale. Al peggio Temple sarebbe andata comunque dal Giudice lasciando lì la nipote. Melanie non se ne sarebbe neanche accorta.
Senza spostare le gambe dalla scrivania, si sporse verso la borsa posata sul pavimento e ne estrasse un’altra cingomma. Desiderava ardentemente bere, fumare o mangiare, e non necessariamente nell’ordine. Ormai non c’era tempo sufficiente per tuffarsi in un’altra pratica.
Trascorse un altro quarto d’ora prima che Clementine entrasse nell’ufficio al primo piano seminterrato del Royal Free Hospital e la scritta sulla porta divenisse visibile anche dall’interno: Children & Adults Programme. Presto sarebbe stato terminato il nuovo centro diurno di Heat Street, quello che avrebbe dovuto diventare il riferimento per tutto il nord di Londra, ivi comprese le zone difficili di Manor House e Finsbury Park. Per il momento però quella era la sede della Responsabile dei Servizi Sociali del Camden Elenore Temple.
Clementine aveva già aperto la bocca per giustificarsi quando la richiuse e bloccò il passo. Lanciò uno sguardo alla figlia. Melanie non aveva sollevato neppure la testa. Non sembrava neppure aver udito aprirsi la porta. La madre si chinò silenziosamente. Storse il capo per leggere il titolo del libro. E si rizzò di scatto. Nor notò che la faccia di Clementine era rossa e gli occhi spalancati. Le nubi nere di una scenata si addensarono nel piccolo ufficio.
Per un istante Clementine restò sulla porta a pugni chiusi. Poi proseguì sollevando l’indice accusatore puntandolo sulla sorella.
Temple spiò la figura elegante di Clementine avvicinarsi alla scrivania. Aveva lineamenti regolari, occhi celesti e capelli dorati come tutti in famiglia ma con i suoi trentasette anni, Clementine aveva anche quasi sei anni di più. Un’era quanto a differenza di mentalità.
«Mi sembra una pessima idea - sibilò Clementine indicando col pollice alle proprie spalle - Ha solo tredici anni.»
«Quattordici. Vuoi che scopra il clitoride a vent’anni come noi?», masticò Nor sottovoce.
Clementine si ritrasse in una smorfia. «Hai l’alito che ucciderebbe un camionista»,
Nor annuì: «Insalata di cipolle.»
«Ma non ti interessa cosa pensano gli altri, qua al lavoro? - Clementine squadrò Temple dalla testa ai piedi. Aveva sul viso una smorfia disgustata. Per lei la socialità era tutto. «Tieniti stretto Sinatra, Elenore ‑ disse in tono sprezzante dopo qualche secondo di inutile attesa ‑, gli esseri umani non possono frequentarti ‑ prese fiato ‑. Sei dispotica. Chi ti ha detto di regalare quel libro a Melanie? E sei capricciosa!», aggiunse colpendo con il dorso della mano la punta del piede di Temple. Era appoggiato sulla scrivania, sopra il passamano e accavallato sull’altro. Mostrava la decoltè in vacchetta color giallo Baby. Più stile showgirl che funzionario statale, dovette ammettere Temple.
«Capricciosa e inurbana.»
Temple la lasciò sfogare. Se Clementine ora avess sottratto il libro a Melanie si sarebbe giocata la confidenza con la figlia. E comunque Melanie poteva sempre andare a leggerselo a casa della zia. Prima o poi Clementine avrebbe fatto il calcolo.
Clementine intercettò lo sguardo di Temple su Melanie. Fece ricadere le braccia lungo i fianchi e inclinò la testa di lato. Biasimava Temple ma con affetto. Forse una parte di Clementine stava anche chiedendosi se leggendo quel libro per tempo avrebbe evitato il disastro con David. La separazione e poi il divorzio.
Nor controllò l’orologio e fece uscire Clementine e Melanie dalla porta antincendio sul retro dell’ufficio, quella che dava sul corridoio della patologia medica e portava agli ascensori per le barelle. Avrebbero evitato la ressa dell’orario a cui terminavano le visite esterne ai pazienti e il ricevimento negli ambulatori.
Giunte agli ascensori, Temple premette il pulsante per la prenotazione. Melanie si era lanciata intanto in un drammatico racconto dell’incidente fuori dai Grandi Magazzini.
«Uno scherzo, uno stupido scherzo», scosse la testa Temple.
Sul viso di Clementine passò un’ombra: «Dici?» Poi saltò di palo in frasca: «Cosa mi dici di questa storia delle telefonate degli “angeli caduti”. Hai sentito? Mettono i brividi», aveva parlato con tono leggero ma teneva lo sguardo di lato evitando quello di Nor. Era in ansia.
Temple annuì lentamente. «Sembrebbe una reazione isterica, da psicosi collettiva.»
«Ne ho ricevuta una anch’io ‑ disse rapidamente Clementine ‑. Oggi, dopo che sei passata a prendere Melanie.»
A Temple si tirò la pelle sulle tempie.
Clementine sgranò gli occhi: «Non fare così», rabbrividì e abbassò ancora la voce avvicinandosi a Nor. «Era tipo una voce lugubre. “Il prossimo angelo cadrà nella tua famiglia”», aveva praticamente bisbigliato. Fece una pausa e continuò: «Ma adesso non fare tragedie. Le ricevono tutti queste telefonate. Ho controllato su internet. Dicono di stare tranquilli, che sono scherzi.» Gli occhi celesti divennero enormi e tali rimasero.
Temple non riuscì a trattenere un mugolio. Lo spasmo al polpaccio era tornato e una scarica elettrica sembrò arrivarle al cervello.
Cercò di distendere i lineamenti in un quasi sorriso. Voleva rassicurare Clementine. Dirle che appunto si trattava di stupidi scherzi ma quando le porte dell’ascensore si aprirono, lei, Clementine e Melanie dovettero appiattirsi contro la parete del corridoio. Stava uscendo una lettiga e Temple notò che non era vuota. Quasi sicuramente era un cadavere destinato all’esame autoptico. Non avrebbe dovuto far uscire Melanie da quella parte ma ormai era troppo tardi.
La lettiga ruotò passando loro accanto. Sulla barella c’era un sacco scuro e la lunga cerniera anteriore era aperta. Sdraiato all’interno c’era un piccolo corpo. C’era sangue e capelli biondi. E un lungo abito bianco. In fondo era slacciato e lasciava intravvedere il cappotto. I piedi erano senza scarpe, solo calzettoni. E ancora sangue. Sangue ovunque. Perfino sulla faccia della ragazzina coprendole il volto quasi del tutto.
3.
La ragazzina vestita da “angelo caduto” si era lanciata da un palazzo. Sulla faccia, oltre al sangue, c’era fango. E c’era altro. Qualcosa di colorato, di piccolo. Coriandoli forse. Elenore Temple, al secondo piano del Royal Free, tentò di mettere a fuoco le immagini viste poco prima. Quel cadavere continuava ad affacciarsi tra i pensieri anche ora che davanti al giudice Williams esaminava il referto dell’anziano malmenato.
Riprese in mano le foto. Il giudice Wiliams la fissava attento, in attesa. Quelli del vecchio erano chiaramente lividi da percosse. Ma la mente di Temple divagava. Clementine e Melanie se ne erano andate ormai da un’ora ma i loro volti erano sempre lì. Aleggiavano sopra le immagini delle ecchimosi dell’anziano come fantasmi. Il viso della sorella era pallidissimo e Melanie, facendo ciao con la mano, aveva mostrato gli occhi sbarrati.
Terminato l’esame del referto. Temple ritornò al seminterrato. Erano ormai le sei di sera ma si dedicò alla perizia per il giudice. Ogni tanto interrompeva. Si alzò con vari pretesti, bighellonò davanti alle sale di patologia forense. Raccolse brandelli di conversazione. Informazioni di prima mano che decise di archiviare. Tornata al computer, ridusse la perizia a icona e aprì un documento vuoto. Le dita scrissero veloci.
Una delle indiscrezioni raccolte riguardava le circostanze dalla tragedia. La ragazzina si era gettata da un palazzo dove era in corso una festa per Halloween. Vi aveva partecipato e poi si era allontanata, infine aveva raggiunto una sala deserta. Non era stato un raptus, dunque. Sembrava aver pianificato tutto. Temple tamburellò con le dita sul pianale. Alene, l’assistete, se ne era già andata a casa. I rumori dell’ospedale si erano attenuati. C’era la tranquillità necessaria per cercare di capirne qualcosa. Salvò il documento come “Angeli caduti” e lanciò la ricerca in rete. Trovò un paio di articoli riassuntivi sul Times e sul Guardian. Le bambine si suicidavano da due anni. Quello in corso era il terzo. Le prime, due anni prima, si erano ammazzate a distanza di diversi mesi: una a Brighton e una in Germania. L’anno successivo, altre due, una in Danimarca e una a Cambridge. Seguivano le vittime dell’anno in corso. Due vittime in un solo mese e tutte in Inghilterra, tre con quella appena giunta in obitorio. Secondo i lanci della Reuters si trattava di Jodie Chapman, tredici anni, di Londra. Temple aggiunse al documento “Angeli caduti” le informazioni raccolte sul Web e tirò le fila. Le ultime vittime si erano uccise in luoghi non troppo distanti e in tempi ravvicinati. Quel massacro non sembrava finire, anzi. Aveva avuto un’accelerazione.
Temple restò a fissare lo schermo senza capire. Le scene dei suicidi erano sempre state facilmente accessibili e i cadaveri erano stati rinvenuti quasi sempre in tempi rapidi. Le indagini non avevano presentato particolari difficoltà dunque. Eppure le analisi non avevano evidenziato fattori comuni tra i suicidi. Sbuffò. Quella formula del “suicidio emulativo” sembrava fatta apposta per coprire le lacune delle inchieste così come la categoria dello stress viene tirata fuori dai medici quando brancolano nel buio.
Mise in ricerca “suicidio”, “disagio giovanile”, “depressione”, poi, finalmente, alla voce “crisi depressive + giovani” trovò il sito di una comunità di recupero. Sembrava affidabile. La pagina riportava un vademecum tecnico con tutte le dipendenze giovanili: dall’eroina, alla sindrome etica dei maniaci del web, fino alle sollecitazioni luminose da video. La documentazione era completa e non colpevolizzava coloro che facevano uso di sostanze. La locuzione “crisi depressive” messa in ricerca figurava all’interno di un trafiletto intitolato “Ecstasy”.
Temple decise che a quell’ora poteva sfidare le normative antifumo e si accese una sigaretta. Il sito parlava di un tipo di ecstasy piuttosto raro. «Tutte le metanfetamine, dopo aver provocato eccitazione, lasciano il soggetto in balia di cupe crisi depressive. Ma Sparrow fa di più. Sparrow, dal nome del pirata cinematografico, è capace di stoccate che mettono davvero al tappeto coloro che assumono la sostanza. I consumatori, terminata l’euforia, si trovano preda di crisi depressive profonde e inarginabili, non di rado accompagnate da raptus autodistruttivi e tentazioni suicide.» Temple spalancò gli occhi e avvicinò il viso allo schermo. Sparrow si distingueva per via della fase calante molto depressiva. Il redattore concludeva: “Sparrow ti ruba l’anima”. Temple ticchettò per qualche minuto le unghie sul piano della scrivania poi digitò “Sparrow + Ecstasy”.
In Google uscirono soprattutto articoli di cronaca nera: retate e sequestri di droga. Sparrow veniva descritta come un’ecstasy molto potente, diffusa saltuariamente. Gli spacciatori la usavano per alzare il livello di dipendenza del mercato. Era comparsa per la prima volta cinque anni prima, oltreoceano.
Temple sollevò lo sguardo sull’angolo destro in alto dello schermo. Il computer segnava le dieci. Sbatté le palpebre e controllò l’orologio. Pazzesco. Le dieci, Sinatra stava morendo di fame se già non aveva fatto harakiri.
Lasciò l’ufficio in tutta fretta dalla porta antincendio. Le luci del corridoio erano già state ridotte a fioche aree giallastre. L’odore di alcool era più forte che mai. Fece un mezzo giro su se stessa puntando all’ascensore quando vide brillare una lama di luce sul pavimento. Filtrava da sotto la porta della “Sala autoptica”: la sala dove poche ore prima era sparito il cadavere di Jodie Chapman.
Temple sfiorò istintivamente la maniglia e la porta si schiuse. Nel varco di una decina di centimetri era visibile una scrivania. Sopra, una lampada illuminava un mucchio di fotografie sparse. Temple sentì un fiotto di adrenalina scaldarle il petto. Sporse la testa all’interno. La tensione le fece stringere la maniglia fino a farla cigolare.
Lo scricchiolio la riportò alla realtà. Doveva fare attenzione. Qualcuno poteva sorprenderla a sbirciare. Insinuò ancora lo sguardo nello spiraglio della porta. Notò la sedia. Era un po’ scostata dalla scrivania e c’era una giacca appoggiata allo schienale. Ci doveva essere stato seduto qualcuno fino a poco prima. Temple ruotò gli occhi di lato. Non c’era anima viva. Doveva entrare. Il cuore cominciò a fare il matto ma Temple avanzò nella stanza e si avvicinò al tavolo.
Sull’immagine, in cima a tutte le altre, c’era una bambina riversa sull’asfalto. La scena aveva molte somiglianze con quella dei Grandi Magazzini ma aveva qualcosa di ancora più cruento e spaventoso. Dilatò le narici. La bocca formulò una “u” silenziosa. Il sangue le si congelò nelle vene. La ragazzina morta era bionda e vestita di bianco come quella che aveva visto nel pomeriggio sulla Hans Crescent ma il corpo era assolutamente disarticolato. Una posizione innaturale e grottesca. Era come una marionetta cui erano stati tagliati i fili. Ecco perchè l’agente quel pomeriggio aveva compreso subito che la bambina non era morta. Che quella davanti a Carroll fosse solo una finta. Nessun corpo vivo, per quanto ferito o contuso poteva assumere quella posizione caotica, come spazzatura abbandonata sulla strada.
Un brivido le risalì la spina dorsale e, giunto alle spalle, le scosse con violenza. Ma Temple fece passare anche le foto sottostanti. Estrasse una biro dalla borsa e con quella scostò i rettangoli di carta lucida. Le fotografie mostravano volti giovanissimi, i capelli biondi. Sangue e abiti bianchi confondevano quelle immagini come se ritraessero tutte la medesima ragazza. Un volto però aveva il naso troncato di netto. Un’altra vittima si era tranciata la lingua e questa pendeva di lato fuori dalle labbra. Alcune bambine erano state orrendamente deturpate dalla caduta. Si assomigliavano tutte ma erano vittime diverse. Nor fissò a testa china quel mare di immagini. Sugli abiti bianchi il sangue coagulato appariva nero. Era come un animale tentacolare che aveva preso possesso delle bambine rubando loro la vita.
Riavvicinò le foto tra loro e urtò la sedia. Risistemò la giacca abbandonata sullo schienale. Emanava un odore buono ma strano. La raccolse e la avvicinò al viso. Il tessuto era morbido. E l’odore era quello dell’inchiostro. Il proprietario non doveva essere né un medico, né un infermiere, né un agente abituato alla durezza della strada. Forse quell’uomo non aveva resistito all’orrore di quelle immagini e aveva avuto bisogno di una pausa.
Temple si voltò a testa bassa, si limitò a riaccostare la porta dietro le spalle e raggiunse l’ascensore.
Arrivò a casa dopo la mezzanotte. Sul pavimento dell’ingresso c’era un escremento di Sinatra. Eppure il bloodhound aveva tutta la possibilità di raggiungere il cortile passando da una gattaiola. Il regalo maleodorante era la sua classica protesta per essere stato abbandonato troppo a lungo.
Si liberò nel water della deiezione di Sinatra, gli sbatté sotto il naso una ciotola di pappa, ma non la sua preferita, e andò sotto la doccia.
Venti minuti dopo aver varcato la porta di casa, Temple poté lasciarsi cadere sul divano e rollare una sigaretta. Era esausta ma lo sguardo vagò inquieto nel salotto in penombra.
C’era una candela a forma di angelo poggiata sulla mensola. Era una di quelle date in omaggio da Carroll, un oggetto tra tanti allineati lì sopra. Come gli altri era un regalo dei suoi fan. Bambini di tutto il Regno le scrivevano email e mandavano anche piccoli doni a Elenore “Nor” Temple “l’angelo vendicatore dei bambini maltrattati”. Così, se non ricordava male, diceva testuale il bigliettino allegato alla candela. La metafora non poteva essere più assurda. Di quei tempi gli angeli, più che vendicare qualcuno, cadevano impallinati come tordi. Accidenti, era così stanca che aveva dimenticato il fagiano. Arrancò fino al frigorifero, e si portò il piatto di portata sul divano insieme a una bottiglia aperta di vino rosso e una forchetta.
Mentre tracannava direttamente dalla bottiglia lo sguardo le cadde sulla cornice sopra la mensola. Conteneva un vecchio articolo dell’Observer, il primo uscito su di lei. Un pezzo lusinghiero che la definiva “esperta di infanzia in prima linea contro le percosse ai minori”. A quell’articolo ne erano seguiti tanti altri. L’ultimo era l’intervista uscita sul Guardian la settimana prima. Non era proprio l’ultimo a dire il vero. Era solo l’ultimo di quelli gentili. L’ultimo in senso strettamente cronologico era un attacco della Brown, la presidente dell’associazione dei genitori conservatori britannici, sempre per via della contrarietà di Temple ai metodi correzionali violenti. Temple distolse lo sguardo e prese a schiacciare tasti sul telecomando della Tv. Il problema dei ragazzi britannici non era più quello delle scudisciate e per aiutarli non bastava la battaglia politica. Entrambi, insulti e lusinghe, le suonarono ampiamente immeritati.
Allungò un braccio e cercò con le dita il piccolo l’avvallamento rugoso nella moquette creato in anni di tabagismo indisciplinato e vi spense la sigaretta.
Spense anche il televisore. Il pensiero della bambina appena uccisa non l’abbandonava e non lo fece nemmeno nel sonno. Anzi. Temple aveva appena chiuso gli occhi scivolando nell’oblio quando li riaprì. Un confuso rovellio circa Clementine e la telefonata che aveva ricevuto la sorella al mattino la risvegliò completamente. Annaspò fino a sedersi sul divano, sottrasse a Sinatra l’ultimo pezzo di fagiano e barcollò fino alla scrivania finendo per tornare su internet. Lavorò tutta la notte.
La stampante sfornò articoli e paginate di forum. Sotto la voce “suicidio + bianco” aveva trovato tutte le informazioni sui fatti, le dinamiche e i dettagli.
Due anni prima, in settembre, una ragazzina vestita di bianco si era gettata da un ponte a Brighton, aveva quattordici anni e si chiamava Abigail Hughes.
Sei mesi dopo, un’altra di tredici era scomparsa in Germania e dopo molte ricerche, Greta Ronenkamp era stata trovata vicino ad Amburgo in un prato, distesa. La persona che l’aveva trovata aveva detto che sembrava dormire. Sopra gli abiti indossava il camice scolastico del laboratorio di chimica, un lungo e ampio camicione bianco. Era il quindici marzo e gli esami del sangue avevano rivelato tracce ingenti di barbiturici. Ne aveva ingoiato un flacone sottratto all’armadietto dei medicinali di casa.
L’anno successivo era stata la volta di Mette Riel, una ragazzina danese di quindici anni, uccisa da coma etilico nel cortile di un pub di Malmo in Svezia. Il fatto che fosse andata a morire tutta sola in un paese straniero non era poi così assurdo. Aveva lasciato Copenhagen unendosi ai giovani che lasciavano di sera la Danimarca per la vicinissima Malmo, molto più permissiva in fatto di alcolici. Indossava una camicia da notte bianca della madre. Era luglio. Cinque mesi dopo, a Cambridge, ancora in Inghilterra, Cora Dean si era invece improvvisamente lanciata per strada ed era finita sotto un autobus. Aveva ancora il costume da angelo indossato per la recita natalizia.
Un fatto emergeva con chiarezza: tutte erano andate ad ammazzarsi lontano da casa.
Temple scelse un’immagine per ogni vittima e la stampò. Erano fotografie scolastiche per lo più. Le bambine, tranne la ragazzina russa, erano senza un filo di trucco. Quelle immagini volevano dare l’idea di giovani a modo e di sane abitudini. Gli occhi innocenti e celesti erano molto diversi da quelli, sbarrati, nelle foto dell’obitorio.
Ricominciò la lettura.
Ora si parlava delle vittime più recenti. Quelle dell’autunno di quell’anno. Erano tutte in Inghilterra. Cheryl Wilson di Coventry, la ragazzina con la testa mozzata, si era ammazzata il dieci ottobre, da meno di un mese, Evie Sokolov, quattordici anni, era invece stata trovata a trentasei ore dalla scomparsa, avvenuta il venti ottobre. Da due settimane scarse, quindi. Era la ragazza morta in cantina con una siringa piantata nel braccio. Le indagini avevano dimostrato però che non era tossicodipendente, a differenza del fratello maggiore, al quale aveva sottratto la dose e l’occorrente per bucarsi. Infine giunse al suicidio di quel pomeriggio. I maggiori quotidiani già davano molte notizie. Jodie Chapman, tredici anni, abitava nel distretto di Islington, ecco perché il suo cadavere era arrivato tanto rapidamente al Royal Free. Per travestirsi da angelo caduto Jodie aveva indossato un abito bianco della madre sopra il kilt e il cappotto. Beh, uno dei finti angeli caduti di Halloween era caduto davvero alla fine. Aveva mezza faccia devastata e, ora, riposava in una cella frigorifera.
Erano ormai passate le cinque del mattino quando Temple scivolò sotto le coperte. Si rigirò nel letto e si massaggiò le palpebre cercando di scacciare le immagini dei piccoli cadaveri. Ma angeli biondi continuarono a cadere come foglie morte davanti agli occhi della mente. Sfidare il freddo di novembre in Inghilterra, salire su un tetto, un terrazzo, un davanzale, sentire il vento gelido e umido penetrarti le ossa. Elenore rabbrividì come se il vento avesse fatto irruzione in quell’istante sotto le lenzuola. Fissare il vuoto e prefigurarsi l’impatto lacerante con l’asfalto. Ammazzarsi non era uno scherzo. Tanto più a tredici, a quattordici anni. Per soffocare l’istinto di conservazione, ci voleva qualcosa di più terribile e spaventoso della morte stessa. Del resto lei non aveva alcun mezzo per venire a capo del rebus. Non poteva nemmeno accedere alla documentazione.
O sì?
L’idea di un’inchiesta sociale sui suicidi prese lentamente corpo e finalmente la massa dorata dei capelli di Temple restò dolcemente immobile sul cuscino.

4.
Quegli occhi ghiacciarono Temple fino al midollo. Erano trasparenti e sparivano quasi nel viso diafano. Evie Sokolov la fissava dalla foto sul tavolo. Aveva posseduto l’aspetto del fantasma ancor prima di diventarlo. Nor Temple controllò l’orologio. Erano solo le sette del mattino e lei indossava già il tailleur color pistacchio. Quello delle grandi occasioni, quel giorno doveva essere credibile.
Verificò di aver preparato tutto e raccolse i fascicoli. Si massaggiò il collo, ingoiò un pezzo di formaggio con i vermi e bevve un ultimo sorso di birra nera. Aveva dormito pochissimo eppure non era riuscita a restare a letto fino a un’ora decente. Il risultato era che anche con la tube intasata dell’ora di punta sarebbe arrivata al Royal Free scandalosamente in anticipo rispetto al solito.
Temple si inoltrò nell’aria pungente sotto il cielo ancora scuro di Chigwell.
Alla fermata di Woodford la metropolitana diventò una scatola di sardine. C’era un motivo dopotutto se di solito andava in ufficio più tardi.
I blocchi grigi del Royal Free Hospital la ingoiarono verso le otto e trenta. Passò davanti alla stanza di Alene. Era vuota. La ragazza che le avevano dato come assistente doveva aver regolato i propri orari su quelli di Temple.
Appena arrivata nel proprio ufficio, appoggiò il portatile sulle ginocchia e le gambe sulla scrivania. Il progetto dell’inchiesta sociale sui suicidi era tutto da scrivere. Doveva essere convincente.
Le dita martellarono sulla tastiera. Temple si alzò soltanto per spalancare la finestra e violare il regolamento antifumo. A quell’ora comunque non c’era rischio che qualcuno irrompesse nella stanza.
Di lì a poco invece sentì bussare alla porta sul retro. La finestra era ancora socchiusa. Perché Alene non fosse passata da davanti era un mistero.
Gridò: «Avanti!»
La porta si schiuse ma nessuno entrò. Temple torse il busto verso il varco e fece un gesto col capo. «Buongiorno!», disse. In attesa nel corridoio si allungava la figura di uno sconosciuto. Era un tizio davvero altissimo. La fissava in silenzio sotto un ciuffo di capelli color castano chiaro, dritti come spaghetti, e sopracciglia leggermente corrucciate. Doveva essere sui trentacinque - quarant’anni.
L’uomo entrò e Temple prese nota del fisico asciutto e delle spalle strutturate. Quella specie di palo della luce indossava un completo in Principe di Galles e scarpe semi-Brogue. Era troppo elegante per essere un “cliente” dei servizi sociali o un poliziotto della morgue. Temple notò il primo bottone slacciato del colletto e la mancanza della cravatta. Troppo informale però per essere un amministrativo e, senza farfallino, non poteva essere un medico. Chiunque fosse, quell’aria annoiata e spocchiosa preannunciava seccature.
Fermo davanti alla scrivania, il tizio spostò il peso da una gamba all’altra. Il portamento era rilassato e sicuro ma la bocca era tirata. Era impaziente.
«Chi sta cercando?», tagliò corto Temple.
«Lei», disse il tipo. La voce era sicura e affilata.
«Con chi ho il piacere di parlare?»
«Sono il Vice Ispettore Capo John Carver della Omicidi», rispose indicando col pollice il corridoio oltre la porta aperta. L’accento era da scuole costose. Un ispettore chic, il mistero si infittiva.
«Vorrei farle alcune domande circa ieri sera,» disse Carver facendo vagare lo sguardo alla parete dietro di lei.
«Prego...» Temple gli fece cenno di accomodarsi ma non tolse le gambe dal pianale della scrivania. Cambiare subito posizione avrebbe dato l’idea di mettersi sull’attenti.
L’Ispettore sollevò un sopracciglio, storse la bocca e non si sedette.
«Sono in attesa del terzo grado...», disse Temple mettendo una punta di ironia nella voce.
Carver si spostò fino a sfiorare la scrivania, di lato, a non più di cinquanta centimetri da Temple. Il tavolo gli arrivava poco più su delle ginocchia. Da vicino quella statura era imbarazzante.
Temple restò con lo sguardo all’altezza della cintura dell’uomo. Se pensava di intimidirla si sbagliava di grosso.
Per tutta risposta Carver della Omicidi, appoggiò le mani sul pianale ai lati delle gambe di Temple. Piegò il busto in avanti e gli occhi castano dorati si piantarono in quelli di lei a venti centimetri di distanza. «Ieri sera alle dieci è entrata nel reparto di patologia forense», disse. La pelle sulle tempie era tirata come se il tizio stesse per scattare in avanti. «Una gravissima scorrettezza. Un voyeurismo del macabro imperdonabile dato il ruolo che lei ricopre.»
Temple sbatté le ciglia fingendosi sorpresa. Quelle del tizio invece non avevano avuto un tremito. Prese tempo schiarendosi la gola. L’incursione della sera prima non doveva essere rimasta inosservata. Temple avrebbe dovuto aspettarselo. «In effetti...Ispettore...ero venuta a cercare qualcuno che mi potesse dare informazioni sulla bambina che si è suicidata ieri pomeriggio.»
«È per questo che ha consultato senza autorizzazione documenti riservati?» La faccia era ancora protesa verso di lei. Temple percepiva l’alito dell’uomo e l’odore d’inchiostro avvertito la sera prima in sala autopsie. Doveva essere stato proprio lui a lasciare incustodite le immagini delle vittime. C’erano grandi probabilità che fosse così e questo cambiava tutto.
Temple si limitò ad aggrottare le sopracciglia: «Documenti riservati?»
«Esattamente», sibilò l’Ispettore e allargò la bocca nella riga piatta di un sorriso maligno. «Le telecamere a circuito chiuso, capisce», aggiunse in tono mellifluo.
Temple deglutì e spalancò gli occhi con aria innocente: «Che fossero foto delle vittime me ne sono accorta solo quando le ho guardate.» E dopo una lieve pausa: «D’altronde, erano sul tavolo in bella vista.»
Gli occhi di Carver divennero due fessure. Il labbro superiore era impercettibilmente inarcato. Il colpo doveva essere andato a segno.
«Che cosa si aspettava di trovare esattamente? ‑ chiese lentamente l’Ispettore ‑ Riviste di moda?»
Temple sentì irrigidirsi la faccia intera. Una vampata di calore si diffuse nel petto. Un’ondata di indignazione le assottigliò la voce: «E lei? A chi crede d rivolgersi? Sia rispettoso, Ispettore. E tolga gli occhi dalle mie ginocchia.»
«Se non sbattesse le gambe sul tavolo, le manterrebbe sotto un riserbo di cui tutti avrebbero a beneficiare dal momento che non si depila.»
Gli occhi di Temple si spalancarono istintivamente. Il cervello ricontrollò di aver ben udito. Ma confermò. Temple riempì i polmoni per rispondere a tono ma le labbra le si incresparono a tradimento.
«Che cos’ha contro i peli, Ispettore? Guardi che fasciatura dei piedi, buco alle orecchie, bustini costrittivi, sono un po’, come dire, lasciati all’altrui libera scelta ormai...»
L’ispettore tornò in posizione eretta e fece qualche passo allontanandosi verso la finestra. «Beh, viva le libere scelte informali», disse girandosi verso Temple. Il dito indice puntava con chiarezza il tacco dodici delle decoltè color pistacchio incrociate sul passamano della scrivania. «Dev’essere comodo e informale camminare con quelli.»
Temple avvertì fremere le labbra in un sorriso e si impose di corrugare la fronte. «Per tornare a noi, un’inchiesta approfondita, almeno sull’area di Londra è inevitabile.»
«È una pessima idea.»
«Spiacente. Ma dopo il terzo suicidio...»
«È difficile da attuare, in ogni caso ‑ la interruppe l’Ispettore ‑. Ci sono indagini in corso e si devono evitare inquinamenti... Miss», disse indugiando con sguardo da entomologo lungo le calze a rete color panna fino alla punta delle scarpe in vacchetta verde. «Ne stia fuori...»
Temple fece scivolare le gambe giù dal tavolo. Lo spilungone aveva superato il limite. Fece ruotare di trenta gradi la poltrona e si piegò in avanti fingendo di frugare nella borsetta. Un tipico rumore orale da reflusso gastrico echeggiò proveniente da qualche parte in basso dietro la scrivania.
Temple sollevò il busto facendo veleggiare la chioma bionda dietro le spalle. La coda dell’occhio le segnalò che le labbra del Vice Ispettore Capo Carver della Omicidi lentamente ma inesorabilmente stavano continuando a schiudersi. Le sopracciglia invece erano già completamente rialzate.
«In ogni caso dovrà fare ogni mossa in via ufficiale», la voce di Carver risuonò solo dopo qualche istante. Era totalmente atona.
«Naturalmente...», rispose Temple, scandendo ogni sillaba.
Lui le rivolse un breve cenno col capo a denti stretti, girò i tacchi e uscì da dove era entrato. La porta gli si richiuse lentamente alle spalle a causa dei cilindri a pompa che accompagnavano il movimento. Il tutto suonò minaccioso.
Temple riposizionò le gambe sul tavolo e si rimise in grembo il Macbook. La relazione era quasi finita. Le ipotesi di indagine erano varie. Andavano dall’abuso, all’abbandono di minore, alle sostanze psicotrope. Tutto risultava ben schematizzato.
Salvò il file ma tenne gli occhi fissi sul desktop. L’odore di Carver era rimasto nell’aria. Sentiva ancora su di sé la puntura degli occhi marroni.
Temple scosse la testa e rilesse il lavoro fatto. Il movente emulativo non era stato sottovalutato. Andavano sensibilizzate le istituzioni scolastiche e i media. La panoramica era completa.
Soddisfatta, stilò un elenco di giornalisti da contattare e aprì il fascicolo delle vittime. Scorse l’elenco controllando le località. Le prime famiglie cui far visita potevano essere quelle di Cambridge e Leicester. Così avrebbe potuto passare da Chigwell, a casa, a prendere Sinatra. Il bloodhound sarebbe stato felicissimo di farsi una gita.
Il plico da inviare al Distretto lo consegnò ad Alene.
La ragazza attese pazientemente che Temple terminasse di elencare gli spostamenti della giornata e si calcò con maggior forza il berretto da baseball con la visiera sulla nuca. Alene era convinta che quel cappello le donasse e che la rendesse simpatica agli assistiti. Temple non potè impedirsi di pensare che la facesse sembrare invece “una” degli assistiti.
Affiorata dal seminterrato, Temple sbirciò il cielo plumbeo che l’attendeva oltre le porte a vetri dell’ospedale.
Un’ora più tardi aveva già tirato fuori dal garage la Focus. Fece salire Sinatra sui sedili posteriori. La speranza era che si limitasse a sbavare solo su quelli.
In cinquanta minuti secchi arrivò a Cambridge, davanti alla casa dove Cora Dean aveva abitato. Aveva dodici anni e si era lanciata sotto un autobus un anno prima mentre lasciava la scuola dopo le prove della recita natalizia. Addosso aveva ancora il costume da angelo. Bambina e costume erano finiti contro il parabrezza di un’auto in sosta.
Temple sospirò e si avviò a passi lenti. La villetta a schiera era bianca. Una di quelle tipiche dei sobborghi a Nord di Cambridge. Sembrava di recente costruzione e ben tenuta. I Dean dovevano appartenere al ceto medio.
Temple suonò il campanello. Ad aprire venne una donna sulla cinquantina. I capelli erano grigi e raccolti. La faccia era segnata da più di una ruga e senza trucco. Sorrideva ma solo con la bocca. La morte di Cora non doveva essere stata superata.
Temple si presentò e Mrs Dean la fece accomodare.
Si inoltrarono sulla moquette blu elettrico dell’ingresso fino a sedersi su un divano in finta pelle.
«Non la disturba se prendo qualche appunto?», chiese Temple.
Mrs. Dean la guardò con la rassegnazione che era tipica nelle famiglie colpite. «Faccia pure...», rispose gentilmente.
«Non le nascondo che gli eventi che riguardano sua figlia presentano aspetti molto difficili da comprendere.» E dopo una pausa Temple aggiunse: «Mi sarebbe utile che mi parlasse di Cora.»
Mrs. Dean socchiuse gli occhi e sospirò. Doveva essere difficile per la donna riassumere tutto il suo mondo affettivo in poche frasi. Temple non poteva d’altronde evitare quella richiesta.
«Io e mio marito ci siamo sposati tardi – rispose mrs. Dean. Parlava in modo da scandire quasi meccanicamente le parole -. Cora era figlia unica, la nostra sola ragione di vita.» L’ultima frase fu un soffio. «Abbiamo cercato di crescerla con tutte le attenzioni possibili, ma c’era una grossa differenza d’età e questo ci rendeva difficile capirla.... Credo fosse questo. Ma forse tutti oggi faticano a capire i figli e Cora era felice da bambina, fino a pochi anni fa.» Le mani le tremarono in grembo.
«Cos’è stato a renderla diversa? C’è stato qualche cambiamento in famiglia? Non so. Vi siete trasferiti da un’altra città? Lei o suo marito avete perso il lavoro?», chiese Temple.
«Niente di tutto questo. Mio marito lavora come segretario al King’s College – rispose con un pizzico d’orgoglio nella voce -. Se solo me ne fossi fatta un’idea precisa... – aggiunse piano -, forse le cose sarebbero andate in modo diverso...»
Gli occhi le si inumidirono e Temple notò che il rosso che li cerchiava si fece più evidente. mrs. Dean probabilmente piangeva ancora spesso.
La donna aggiunse: «Si era chiusa completamente in se stessa e aveva cominciato a vestirsi di nero.»
«È uno stile molto comune fra i ragazzi», suggerì Temple. Ricordava con precisione che anche Cora nelle foto pubblicate sui giornali aveva un viso da ragazzina tutta casa e scuola. Probabilmente le famiglie avevano fornito le immagini delle figlie per come desideravano fossero ricordate.
«Sì, ma aveva anche cominciato a fumare!», continuò mrs. Dean.
Temple non disse nulla. A dodici anni era davvero presto tuttavia non era infrequente tra gli adolescenti. In ogni caso nulla che potesse spiegare un suicidio.
«Si è uccisa poco prima di Natale, quasi un anno fa ‑ mormorò la donna ‑, ma per me è come se fosse passato un giorno. Non ho nemmeno il coraggio di riporre le sue cose. Entro nella sua camera un paio di volte al mese per pulire ma tutto è come lei lo ha lasciato.»
Il polpaccio destro di Temple cominciò a pulsare e uno strano formicolio le percorse la schiena. L’istinto le diceva di correre su per le scale in cerca della stanza di Cora, senza sapere nemmeno da che parte dirigersi. «La vorrei vedere, sarebbe importante», chiese nel modo più pacato che le riuscì.
Si alzarono e percorsero a ritroso parte dell’ingresso con la moquette blu elettrico. Salirono le scale. La stanza era in fondo al ballatoio.
Era piccola, c’era un letto addossato alla parete opposta a quella della porta. Vari oggetti pendevano dal soffitto: una chitarra nera senza corde, dei vecchi bongos, un acchiappasogni fatto di piccoli teschi che oscillò come un grosso ragno. Rocker con facce mostruose spalancavano la bocca nei poster alle pareti. Sulla scrivania e sul comodino si notavano giornaletti con scritte zigzagate. Piegati su una seggiola c’erano abiti scuri con qualcosa di rosso o di dorato. L’insieme era piuttosto lugubre.
Temple si mosse lentamente prendendo nota con attenzione di ogni particolare fin quando la testa le si inclinò spontaneamente attratta da qualcosa sul lato dell’armadio: qualcosa nella posizione ideale per essere ben visibile stando sdraiati sul letto e nello stesso tempo nascosto allo sguardo di chi entrava. Qualcosa di privato dunque.
Si avvicinò.
Si trattava di un’illustrazione natalizia con piccoli gnomi al lavoro per costruire giocattoli. Per nulla in tema con il resto della stanza.
Il polpaccio le inviò una fitta. Cora si era uccisa poco prima di Natale. Indossava il costume di una recita natalizia. E ora si scopriva che un poster a tema natalizio era per lei l’immagine da guardare come ultima cosa prima di addormentarsi e come prima al risveglio.
Temple si incuneò tra la pedata del letto e la fiancata dell’armadio. Il rettangolo di carta colorata era fissato con due pezzi di nastro adesivo. Sopra, Cora aveva disegnato un grande coltello. Ma sopra quest’ultimo c’erano molti altri segni. Segni che affondavano nella carta. Erano stati tracciati con forza, in diagonale, sovrapposti. Indicavano che Cora aveva tentato di nascondere la sagoma del coltello.
Temple distanziò un po’ la testa. Fissò l’immagine complessiva socchiudendo gli occhi. Il viso le si contrasse in una smorfia. Le implicazioni di un coltello cancellato erano troppe per poter fornire tracce ma era un’indicazione inquietante. E un fatto era certo, Cora non amava il Natale.
«Aveva occhi sempre angosciati», bisbigliò mrs. Dean con tono confidenziale. Aveva parlato alle spalle di Temple e per evitare il rischio che si interrompesse lei non si voltò. «Non so, una specie di rabbia, a volte, ma sopratutto smarrimento.» La donna sembrava dar sfogo ai pensieri più reconditi. «Il dottore diceva che era depressa, ma secondo me era qualcosa di più di una mancanza di ormoni nel cervello. Ho sempre pensato che fosse il computer, è tutto cominciato da lì...»
Lo sguardo di Temple andò a un vecchio Acer. Era coperto di stickers, alcuni a forma di falce, altri a forma di goccia di sangue e altri ancora a forma di rose trafitte da spilli. In stile con tutto il resto. Era il poster degli gnomi a staccare su tutto. Doveva essere quella la chiave.
Temple annuì in silenzio e uscì lentamente dalla stanza. Conosceva le statistiche che mettevano il Natale tra i periodi preferiti per il suicidio. Il gesto di Cora confermava fin troppo perfettamente il quadro della malattia depressiva.
Temple si congedò. L’aria fresca di metà pomeriggio la risvegliò dal torpore nel quale era scivolata, e il muso felice di Sinatra che la guardava dall’abitacolo la risollevò momentaneamente dai pensieri cupi.
Fece scendere il cane e si allontanò di qualche passo. La pipì di Sinatra sul cancello era l’unica cosa che Temple potesse risparmiare ai Dean.
Risalì in auto e la concentrazione si spostò sulla visita successiva. Percorse la A14 fino a Kettering e poi imboccò l’A6.
Un’ora e un quarto dopo, arrivò a Leicester davanti a quella che era stata la casa di Evie Sokolov. La strada era una colata nera. Lambiva le radici del palazzo, senza marciapiedi, alberi, paracarri, segni di parcheggio. Era un edificio lungo che si estendeva per centinaia di metri, rosso. Roba per lavoratori, gente che là dentro a malapena ci dormiva.
Temple si guardò attorno alla ricerca dell’ingresso. Si diresse verso un incavo buio. Sembrava una bocca vuota e quadrata.
Pigiò in corrispondenza della targhetta Sokolov. Una voce le disse di salire al secondo piano.
Superò una porta a vetri e imboccò la rampa. La tromba delle scale odorava di candeggina. La luce dei lampioni sulla strada filtrava a quadretti per via delle inferriate. Forse col tempo ci si abituava.
Avvicinandosi sentì sempre più forte odore di cavolo e aceto e osservò l’uomo in attesa. Era alto, aveva capelli biondi e la pelle rossa come se gliel’avessero strofinata.
Temple gli tese la mano. «Piacere mr. Sokolov, sono Temple, Elanor Temple dell’ SCS di Camden, Londra. Mi scusi se sono arrivata senza preavvertire.»
Gli occhi chiarissimi dell’uomo la perquisirono con diffidenza.
«Stiamo conducendo un’inchiesta sociale sull’incidenza del suicidio nelle giovani generazioni e…», Temple tacque lasciando in sospeso la frase.
Dopo aver lanciato qualche sguardo incerto all’interno dell’appartamento, il signor Sokolov si decise a farla entrare.
Il salottino in cui si ritrovarono era pulito e arredato in modo spartano. Da una porta laterale filtrava la mobilia di una cucina e una donna dai capelli lunghi e nerissimi comparve tra gli stipiti.
Le venne incontro: «Piacere sono la madre di Evie.» Aveva un forte accento russo, come il padre del resto.
Temple sorrise e l’uomo prese a spiegare: «Ci siamo trasferiti in Inghilterra quando la bambina doveva ancora nascere.» Aveva parlato in tono burbero, in piedi, nel piccolo salotto e mrs. Sokolof si inserì per aggiungere: «Invece quando siamo arrivati, l’altro figlio c’era già perché è più grande.»
«Ivan, se non sbaglio», specificò Temple. Il nome del ragazzo cadde in un silenzio di piombo. La mente di Temple andò al fascicolo che aveva scorso al mattino. Ivan era un tossicodipendente. La piccola Evie si era tolta la vita con un’iniezione d’eroina sottratta al fratello. La roba che avrebbe dovuto uccidere il ragazzo alla fine era stata fatale per lei.
«Non ci capiamo quasi niente di come vanno le cose in questo Paese, come ragionano i ragazzi, la scuola... È difficile crescere i figli», borbottò l’uomo passandosi la manica dell’avambraccio sotto le narici.
Temple rimase in silenzio. I genitori di Cora e di Evie appartenevano a mondi diversi. Ma condividevano quel senso di impotenza.
Il signor Sokolov invitò Temple ad accomodarsi.
«Sa, è tutto il giorno che squilla il telefono. Ci sono tanti giornalisti a volerci intervistare...per la bambina morta ieri...», si giustificò la signora Sokolov.
«Quella ragazzina di Londra – spiegò il padre -, nemmeno venti giorni dopo nostra figlia.»
«Fanno il loro lavoro. Bisogna portare pazienza…», mormorò la madre abbassando la testa.
Temple estrasse dalla borsetta il tesserino: «Ecco, non sono una giornalista». Lo porse alla signora mentre il marito si sporgeva per vedere.
Temple lasciò loro un po’ di fiato. La condizione di difficoltà, il figlio tossicodipendente, il suicidio della bambina, dovevano far sentire i Sokolov sotto accusa. E al dolore probabilmente si aggiungeva la rabbia.
Infine gli occhi dei russi tornarono a sollevarsi dal documento verso Temple.
«Posso vedere la camera di Evie?», chiese lei.
Marito e moglie si scambiarono uno sguardo fugace.
Mrs. Sokolov, apertamente a disagio, allargò il braccio in direzione del soggiorno: «È qui», disse indicando la sala. «Evie non aveva una stanza sua. Dormiva sul divano.»
I muscoli del viso risposero disciplinatamente all’ordine di Temple di non tradire un po’ di compassione. «E… dove teneva le sue cose?», chiese con dolcezza.
Mrs. Sokolov si alzò e aggirò le gambe di Temple per raggiungere una piccola cassapanca accanto al bracciolo del divano. Ne estrasse uno zaino e una scatola.
«E i vestiti?»
Nor fu introdotta in una specie di rispostiglio. Aveva una superficie di un metro quadrato al massimo. Era uno sbroglio più che altro. Da esso si accedeva a altri due locali. Mrs. Sokolov davanti a lei aprì un armadio a muro.
«Ecco», disse indicando un paio di scaffali. Nor osservò i due ripiani di roba stipata. Quelli erano di pertinenza di Evie. La stanza di Cora non le sembrò più tanto lugubre.
Temple diede un’occhiata sorridendo e arretrò di nuovo verso il soggiorno dove, raggiunto il divano, si sedette e indicò di nuovo le cose estratte dalla cassapanca.
«Posso?» chiese.
Il signor Sokolov fece segno di sì con la testa e, mentre mrs. Sokolov svuotava lo zaino sul tavolino, Temple aprì la scatola da dolci. Era in metallo. Guardò al suo interno. C’erano pupazzetti di gomma per cancellare, matite a mozziconi e orecchini spaiati, un guanto di pizzo nero e il distintivo di un gruppo rock, metallaro a giudicare dalle facce. Sopra c’era scritto Mayhem. I gusti musicali di Evie non sembravano distanti da quelli di Cora e, almeno a giudicare dal guanto, le due ragazzine condividevano la passione per il gotico.
Temple allungò istintivamente la mano sul tavolino alla ricerca della borsa da cui estrarre una sigaretta. Quando se ne rese conto richiuse la mano e la spostò sul diario scolastico che era lì accanto. Lo prese e cominciò a sfogliarlo. Era pieno di stupidaggini e disegni cretini. Non c’erano, tuttavia, le classiche frasi sdolcinate e zuccherose che le ragazzine scrivono riferendosi agli idoli dei telefilm, della musica o al tipo di turno. Evie non dava segni di interesse per l’altro sesso.
Temple fissò l’immagine di Evie sulla parete. Era puntata nell’angolo della cornice argentea di un’icona. Era la stessa pubblicata dai giornali. Evie vi compariva insieme a un’amica. Delle due era la più alta. E di non poco. Il viso diafano non sorrideva neppure nella foto. Aveva i capelli chiarissimi e gli occhi lo erano tanto da sparire quasi nella faccia. Di ragazzini che le giravano intorno dovevano essercene stati parecchi.
Temple richiuse il diario. I Sokolof erano seduti sulle poltrone vicine. La seguivano con gli occhi. Sembravano in attesa di un verdetto.
Temple tappò la scatola, poi ripose il diario nello zaino. Nel farlo però la mano incontrò qualcosa sul fondo. Qualcosa di sagomato, senza spigoli. Aveva la consistenza del sapone e una cordicella spuntava da qualcosa di tondo. Indovinare era fin troppo facile.
Il cervello di Temple cominciò a imprecare silenziosamente. Estrasse la mano. Le dita stringevano effettivamente una piccola candela scolpita a forma di angelo.

Edited by folgorata - 6/2/2012, 14:27
 
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